Per il Cnf, la difesa non giustifica l'offesa. Illeciti gli attacchi personali al collega di controparte

di Marina Crisafi - Dare del "saccente" e "dispotico" al collega di controparte è un atteggiamento che merita la censura. Così ha deciso il Consiglio nazionale Forense, con la sentenza n. 20/2016, pubblicata il 30 gennaio 2017 sul sito istituzionale (qui sotto allegata), confermando la sanzione della censura inflitta ad un avvocato dal proprio Consiglio dell'Ordine.

Nel caso di specie, in un atto giudiziario l'avvocato sosteneva che il collega di controparte fosse una "persona che si è dimostrata in ogni occasione, dispotica, saccente, grintosa, di sola intelligenza e fonte esclusiva dello scibile umano", affermando altresì che la difesa avversaria fosse tanto errata ed infondata da costituire frode processuale. Per tale condotta, il legale veniva sanzionato per violazione dell'art. 20 del Codice Deontologico (oggi art. 52 NCDF).

Per il Cnf la sanzione non può che essere confermata. "Sicuramente - ha affermato infatti preliminarmente il Consiglio - l'avvocato può utilizzare fermezza e toni accesi nel sostenere la difesa della parte assistita o nel contrastare le decisioni impugnate". Tuttavia, "tale obbligo difensivo può e deve essere adempiuto senza trascendere in comportamenti non improntati a correttezza o addirittura offensivi e, come tali, che lesivi della dignità della professione". Del resto, "lo stesso legislatore sanziona l'utilizzo di espressioni sconvenienti ed offensive consentendo al giudice di disporne la cancellazione a norma dell'art. 89 c.p.c.".

Il diritto della difesa, continua ancora la sentenza del Cnf, "incontra un limite insuperabile nella civile convivenza, nel diritto della controparte o del giudice a non vedersi offeso o ingiuriato" Per cui, la tutela del diritto di difesa e critica, il cui esercizio non può travalicare i limiti della correttezza e del rispetto della funzione, "non può tradursi, ai fini dell'applicazione della relativa 'scriminante', in una facoltà di offendere".

Cnf, sentenza n. 20/2016

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