La Cassazione interpreta l'assistenza in maniera estensiva. Il lavoratore può dedicarsi ai propri bisogni non essendo necessaria la continuatività ma una presenza costante

di Lucia Izzo - Il lavoratore che assiste una persona handicappata, beneficiando dei tre giorni mensili di permesso retribuito ex art. 33 della Legge 104/92, non deve necessariamente svolgere assistenza nelle ore di lavoro, avendo a disposizione l'intera giornata per programmare al meglio l'assistenza in modo tale da potersi ritagliare uno spazio per compiere quelle attività che non sono possibili (o comunque difficili) quando l'assistenza è limitata in ore prestabilite e cioè dopo l'orario di lavoro. In altri termini, i permessi servono a chi svolge quel ruolo gravoso di assistenza a persona handicappata, consentendogli altresì di poter svolgere un minimo di vita sociale, e cioè praticare quelle attività che non sono possibili quando l'intera giornata è dedicata prima al lavoro e, poi, all'assistenza. 


Si è espressa in questi termini la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, nella recente sentenza n. 54712/2016 (qui sotto allegata) confermando la condanna per truffa nei confronti di una lavoratrice, condannata per avere utilizzato i permessi retribuiti di cui all'art. 33 L. 104/1992, non per assistere il familiare disabile, ma per recarsi all'estero in viaggio con la propria famiglia.


L'interpretazione della norma fornita dagli Ermellini nel caso di specie, origina dal motivo di ricorso formulato dalla donna, secondo il quale la ratio legis della suddetta norma non consisterebbe solo nella salvaguardia della salute psicofisica della persona affetta da grave handicap, così come ritenuto da entrambi i giudici di merito, ma anche nella "realizzazione del completo equilibrio del lavoratore impegnato, oltre che nel proprio lavoro, anche nella talora gravosissima cura del soggetto disabile". 


Ciò comporterebbe, quindi, ad avviso della ricorrente, l'insindacabilità da parte del datore di lavoro delle modalità con le quali il lavoratore utilizza quei permessi e ciò perché "non esiste alcuna norma, né di carattere generale né di tipo regolamentare, che stabilisca quali siano le modalità di fruizione dei permessi oppure che disciplini il potere di controllo, ad ulteriore conferma che la libertà di scelta viene rimessa al soggetto avente titolo ad ottenere il beneficio di legge".

Il dato normativo

I giudici della seconda sezione penale, rammentano che attualmente la norma (a seguito dell'art. 6 d.lgs 119/2011) dispone che "A condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno, il lavoratore dipendente, pubblico o privato, che assiste persona con handicap in situazione di gravità, coniuge, parente o affine entro il secondo grado, ovvero entro il terzo grado qualora i genitori o il coniuge della persona con handicap in situazione di gravità abbiano compiuto i sessantacinque anni di età oppure siano anche essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti, ha diritto a fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito coperto da contribuzione figurativa, anche in maniera continuativa".


Tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità deve essere incluso anche il convivente (Corte Cost., sentenza n. 213/2016).

L'interpretazione "estensiva" della Cassazione

Il Collegio ritiene di far proprie le considerazioni da ultimo effettuate sul punto, dalla Corte Costituzionale che, con la sentenza 213/2016, alla stregua dell'evoluzione della normativa, ha rilevato che il permesso mensile retribuito è "espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell'assistenza di un parente disabile grave", trattandosi dunque di uno strumento di politica socio-assistenziale, che (come avviene per il congedo straordinario ex art. 42, comma 5, d.lgs. n. 151/2001) è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale.


Nonostante l'interesse primario cui è preposta la norma in questione sia quello di "assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza del disabile che si realizzino in ambito familiare, indipendentemente dall'età e dalla condizione di figlio dell'assistito", la legge 104/1992 postula anche l'adozione di interventi economici integrativi di sostegno alle famiglie "il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell'assistenza dei soggetti portatori di handicap" nei quali si iscrive il diritto al permesso mensile retribuito in questione.

Nella precedente sentenza n. 4106/2016, decidendo in una fattispecie (parzialmente) assimilabile a quella in esame, la Corte ha interpretato l'art. 33 legge cit., ritenendo che i suddetti permessi lavorativi, siano soggetti ad una duplice lettura: a) vengono concessi per consentire al lavoratore di prestare la propria assistenza con ancora maggiore "continuità"; b) vengono concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali.


Qualunque sia la lettura che si voglia dare della suddetta normativa (e, comunque, l'una non esclude l'altra), quello che è certo secondo gli Ermellini è che "da nessuna parte della legge, si evince che, nei casi di permesso, l'attività di assistenza dev'essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa". Anzi, tale interpretazione si deve escludere laddove si tenga presente che, per la legge, l'unico presupposto per la concessione dei permessi è che il lavoratore assista il famigliare handicappato "con continuità e in via esclusiva".


È del tutto evidente che tale locuzione non implica un'assistenza continuativa di 24 ore, per la semplice ed assorbente ragione che, durante le ore lavorative, il lavoratore non può contemporaneamente assistere il parente. Pertanto, l'espressione va interpretata, cum grano salis, nel senso che è sufficiente che sia prestata con modalità costanti e con quella flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore. 


Infatti, se è considerata assistenza continua quella che il lavoratore presta nei giorni in cui lavora (e, quindi, l'assistenza che presta dopo l'orario di lavoro, al netto, pertanto, delle ore in cui, lavorando, non assiste il parente handicappato), ne consegue che non vi è ragione per cui tale nozione debba mutare nei giorni in cui il lavoratore usufruisce dei permessi, potendo egli, anche in quei giorni, graduare l'assistenza al parente secondo orari e modalità flessibili che tengano conto, in primis, delle esigenze dell'handicappato.

Il caso in esame: permessi retribuiti e viaggi

Nel caso in esame, tuttavia, si discute se sia lecito, per il lavoratore che chieda di usufruire dei permessi retribuiti, di non assistere la persona handicappata e, quindi, per usare le stesse parole della ricorrente, di utilizzare quei giorni come se fossero giorni feriali da utilizzare come meglio gli aggrada.


Nonostante, come predetto, la norma esaminata preveda un'agevolazione anche per chi assiste una persona handicappata, tale agevolazione, presuppone, pur sempre, che chi ne usufruisce, continui a prestare assistenza: l'agevolazione consente al beneficiario del premesso di avere a disposizione l'intera giornata per programmare al meglio l'assistenza, così da potersi ritagliare uno spazio per compiere quelle attività che non sono possibili (o comunque difficili) quando l'assistenza è limitata in ore prestabilite e cioè dopo l'orario di lavoro, ma, è ovvio che l'assistenza dev'esserci. 


L'eliminazione (ex art. 24 della legge n. 183 del 2010), dei requisiti della "continuità ed esclusività" dell'assistenza per fruire dei permessi mensili retribuiti,  è servita solo a chiarire la norma, ma non a mutare e a stravolgerne l'essenza e la ratio.


L'assistenza non è fattualmente ipotizzabile nelle ipotesi in cui, come quello in esame, il fruitore dei permessi, si disinteressi completamente dell'assistenza, partendo per l'estero: i permessi, infatti, non possono e devono essere considerati come giorni di ferie (perché a tal fine è preposto un ben preciso e determinato istituto giuridico), ma solo come un'agevolazione che il legislatore ha concesso a chi è si è fatto carico di un gravoso compito, di poter svolgere l'assistenza in modo meno pressante e, quindi, in modo da potersi ritagliarsi in quei giorni in cui non è obbligato a recarsi al lavoro, delle ore da poter dedicare esclusivamente alla propria persona. 


In conclusione, la censura dev'essere disattesa alla stregua del seguente principio di diritto: "colui che usufruisce dei permessi retribuiti ex art. 33/3 L. 104/1992, pur non essendo obbligato a prestare assistenza alla persona handicappata nelle ore in cui avrebbe dovuto svolgere attività lavorativa, non può, tuttavia, utilizzare quei giorni come se fossero giorni feriali senza, quindi, prestare alcuna assistenza alla persona handicappata. Di conseguenza, risponde del delitto di truffa il lavoratore che, avendo chiesto ed ottenuto di poter usufruire dei giorni di permesso retribuiti, li utilizzi per recarsi all'estero in viaggio di piacere, non prestando, quindi, alcuna assistenza". 

Per approfondimenti, vai alla guida sui permessi retribuiti ex legge 104

Cass., II sez. pen., sent. n. 54712/2016

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