Anche in Italia si sta diffondendo la prassi anglosassone di subordinare una quota di onorari al raggiungimento di un risultato favorevole, la clausola "success fee"

di Valeria Zeppilli - Nei paesi anglosassoni ha preso piede ormai da diverso tempo la cd. success fee (o contingent fee o conditional fee).


Cos'è la success fee

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Si tratta, in sostanza, di una clausola in forza della quale il compenso degli avvocati o una sua parte vengono pagati solo nel caso in cui il professionista riesca a raggiungere un risultato favorevole per il cliente, sia in via giudiziale che in via stragiudiziale. E in tal caso la parcella risulterebbe più elevata.

Insomma, per usare un'espressione diffusa tra le aule di giustizia inglesi: no win, no fee.

Se questa è la definizione generale e approssimativa della success fee, scendendo più nel dettaglio si deve dare conto del fatto che essa, in realtà, conosce una molteplicità di declinazioni. Ad esempio, negli USA è individuata in una percentuale del risarcimento che si riesce ad ottenere per il proprio cliente, mentre in Inghilterra in una percentuale dell'onorario "base" fissato, variabile ma non superiore al 100%.

La success fee in Italia

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Negli ultimi anni, la prassi tipicamente anglosassone di fare ricorso alla success fee si è diffusa anche in altri paesi, tra i quali Canada, Francia, Giappone, Irlanda e Grecia.

Ad onor del vero anche nella nostra penisola stanno proliferando i legali che propongono ai propri clienti un tal genere di accordo, rischioso ma potenzialmente molto vantaggioso.

La legittimità della success fee in Italia, tuttavia, deve fare i conti con la delicata questione inerente al cd. patto di quota lite, ovverosia un patto che, un tempo assolutamente vietato e successivamente liberalizzato dal decreto Bersani, oggi si colloca in una posizione giuridica decisamente ambigua.

Il patto di quota lite

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Nonostante le modifiche apportate dalla Legge Bersani all'articolo 2333 del codice civile, a seguito della riforma Forense del 2012 (che ha introdotto la nuova legge sull'ordinamento professionale numero 247/2012, alla quale è seguita la nuova formulazione del codice deontologico forense), la legittimità del patto di quota lite è oggi contornata da un'alea che ancora non ha trovato chiarimenti nella giurisprudenza.

L'articolo 13 della legge professionale, infatti, nel sancire che la pattuizione dei compensi è libera, dapprima ammette, tra le altre, quella "a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione". Successivamente, però, vieta "i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa".

La stessa ambiguità di rinviene anche nell'articolo 25 del nuovo codice deontologico forense che recupera nei fatti i contenuti della legge professionale, da un lato ammettendo la pattuizione del compenso dell'avvocato in maniera percentuale e dall'altro vietando il pagamento con una quota del bene oggetto della lite.

I confini di liceità della success fee

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Nel valutare la legittimità dell'utilizzo della success fee da parte degli avvocati italiani, quindi, a fronte dei dubbi che derivano dalla lettura delle norme che regolamentano la professione forense, l'unica cosa da fare è quella di ricercare un'interpretazione che dia loro un senso e un significato e, sulla base di questa, operare un'opportuna distinzione.

Ovverosia: distinguere i casi in cui tra le parti siano stipulati patti scritti che riproporzionino i compensi professionali ai risultati raggiunti senza però riferirsi in alcun modo a delle quote del bene oggetto di contenzioso, dai casi in cui in forza di simili patti i compensi (e dunque la parcella) abbiano ad oggetto (anche solo parzialmente) tale bene.

Nella prima ipotesi la success fee è lecita ed efficace, nel secondo caso essa cozza con la legge che regolamenta la professione forense e con il nuovo codice deontologico.

Con la conseguenza che le varie declinazioni in cui tale clausola può potenzialmente manifestarsi, e in cui in effetti si manifesta all'estero, in Italia si riducono ad una sola.

Valeria Zeppilli

Foto: 123rf.com
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