Brevi note all'ordinanza del Tribunale di Fermo che ha dichiarato inammissibili i capitoli di prova contenenti le parole "vero che"

Dott. Andrea Del Nevo - L'ordinanza del Tribunale di Fermo sull'inammissibilità dei capitoli di prova contenenti le parole "vero che" (si veda: "Tribunale di Fermo: inammissibili i capitoli di prova se contengono le parole 'vero che'" ndr) presenta nel panorama giurisprudenziale di merito carattere potenzialmente rivoluzionario.

Essa ha stabilito un principio che potrebbe essere così massimato: "tutti i capitoli di prova orale nei quali l'esposizione dei fatti sia preceduta dalla locuzione vero che devono essere dichiarati inammissibili, per contrasto con il divieto di domande suggestive di cui alla norma dell'articolo 499 del codice di procedura penale, applicabile al processo civile".

Quest'ultima norma, come è noto, è intitolata "regole per l'esame testimoniale".

Il terzo comma della stessa stabilisce che "nell'esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte".

L'estensore dell'ordinanza in commento, richiamando genericamente l'articolo del codice di procedura penale, senza riferirsi al suo terzo comma, ha fondato su di esso il principio per cui l'utilizzazione da parte dei difensori della locuzione sopra citata rende inammissibile il relativo capitolo di prova, perché finalizzato a formulare domande suggestive (e cioè suggerimenti in ordine al tenore della risposta) al testimone.

Si tratta di un provvedimento che ritengo condivisibile solo per una minima parte in diritto, e per un ulteriore aspetto, nella parte in cui consente una riflessione generale in ordine alla cultura tecnica del ceto forense italiano, su cui si dirà più avanti.

Venendo alla condivisione giuridica, osservo che un espresso divieto di domande suggestive non esiste nel codice di procedura civile.

Questo però non significa che tali domande siano consentite in tale processo.

Mi trovo perciò d'accordo con l'estensore dell'ordinanza commentata, nella parte in cui ritiene applicabile l'articolo 499 c.p.p. al processo civile.

Il problema di cui l'estensore non sembra avvedersi è però costituito dalla diversità evidente delle modalità di acquisizione della prova orale nei due tipi di processo.

Se infatti è sostanzialmente pacifico in dottrina che nè il processo civile né quello penale possono dirsi processi puramente inquisitori o accusatori, è anche vero che ad oggi in Italia il processo civile resta prevalentemente un procedimento inquisitorio nella gestione dell'acquisizione delle prove per interrogatorio o testimoniali.

Sul punto basta leggere l'articolo 253 del c.p.c.

Tale articolo dispone chiaramente che, a differenza del processo penale (v. l' art. 498 c.p.p.), solo il giudice (anche unico oggi, e non solo quello istruttore delle cause collegiali) può rivolgere domande ai testimoni.

Le parti in causa (compreso il pubblico ministero) possono rivolgere domande ai testimoni solo con l'autorizzazione del giudice.

Ciò si evince, per le domande riguardanti i capitoli di prova, dal secondo comma della norma citata, che vieta alle parti di interrogare "direttamente" i testimoni, così implicitamente consentendo le domande indirette, e cioè autorizzate dal giudice.

Per le domande "utili" invece a "chiarire i fatti" la liceità delle domande indirette si ricava dal secondo alinea del primo comma della norma, che consente l'"istanza di parte", che null'altro è che la richiesta di autorizzazione al giudice.

In un sistema così strutturato l'applicazione dell'articolo 499 c.p.p., che riguarda un sistema processuale prevalentemente accusatorio, comporta:

- il dovere deontologico per il giudice di non formulare domande suggestive, che potrebbero essere dettate dalla sua volontà anche inconscia di confermare il giudizio fino a quel momento formato nella sua mente in ordine al possibile esito della causa.

- l'esigenza da parte sua di non autorizzare domande delle parti che abbiano la finalità di suggerire la risposta.

L'innesto della norma procedurale penale proposta dall'ordinanza del tribunale di Fermo può operare solo nei rigorosi limiti appena tracciati.

Quello che però non può in alcun modo essere condiviso è che tra le conseguenze di tale innesto si debba annoverare la pronuncia di inammissibilità dei capitoli di prova orale, preceduti dalla locuzione "vero che".

Anche in questo caso l'estensore dell'ordinanza omette di esaminare con la dovuta attenzione il testo dell'articolo 253 c.p.c. con particolare riferimento al primo alinea del primo comma.

La norma specifica chiaramente che il giudice interroga i testimoni sui "fatti" intorno ai quali è chiamato a deporre.

Il richiamo ai "fatti" evoca la stessa dicitura contenuta nell'articolo 244 c.p.c., e sono i fatti che devono essere contenuti in quelli che tale norma definisce "articoli", e che l'articolo 102 delle disposizioni di attuazione c.p.c. definisce come "capitoli".

E dall'analisi di questo complesso normativo emerge l'equivoco su cui si fonda l'ordinanza che si sta commentando.

L'estensore della stessa infatti considera i capitoli di prova come una formulazione preventiva delle domande che il giudice dovrà rivolgere alle controparti (nell'interrogatorio formale) ed ai testimoni.

Ma se la legge avesse inteso i capitoli di prova come domande non avrebbe avuto alcun problema ad effettuare tale specificazione, come emerge chiaramente dalla presenza del termine "domande" nel secondo alinea del primo comma dell'articolo 253.

In realtà il riferimento esclusivo ai "fatti" effettuato dagli articoli 244 e 253 c.p.c. dimostra inequivocabilmente che l'articolazione in capitoli distinti dei fatti sui quali il giudice potrà liberamente interrogare le parti ed i testimoni costituisce soltanto un metodo per rendere più chiaro il tema probatorio sul quale verrà espletata la prova orale.

Tale esigenza chiarificatrice, non dissimile dalle tecniche rispettivamente usate dal legislatore (per quanto riguarda la suddivisione delle norme in "articoli") e dai romanzieri (per ciò che concerne l'articolazione delle loro opere in "capitoli"), soddisfa rispetto ai fatti introdotti dalle parti un'esigenza duplice.

La prima è costituita dalla necessità per il giudice, resa oggi ancora più pressante dalla costituzionalizzazione del principio della durata del giusto processo ex art. 111, secondo comma e secondo alinea, della Costituzione, di non ammettere i fatti capitolati che per le loro caratteristiche (genericità, irrilevanza, non contestazione ad opera della controparte etc.) provocherebbero un appesantimento inutile della prova, e quindi del processo.

La seconda esigenza riguarda la tutela del diritto di difesa della parte contro cui tale prova è richiesta, ed in particolare la necessità di mettere la stessa nella condizione di poter svolgere tutte le critiche in ordine all'ammissione dei fatti contenuti nella capitolazione avversaria.

Chiarite le reali esigenze dei capitoli di prova, si comprende come gli stessi non costituiscano un vincolo per il giudice alle modalità di formulazione delle domande da parte dello stesso, che restano totalmente libere.

Come libero resta quindi il difensore di articolare come meglio ritiene i capitoli di prova, presumibilmente senza utilizzare alcuna locuzione, trattandosi semplicemente di esporre fatti e non di scrivere domande.

Come già anticipato, approfitto di questa sede per proporre una riflessione generale, da condividere con l'avvocatura italiana.

L'ordinanza in esame potrebbe essere letta anche come la spia di un malessere diffuso nella magistratura italiana, che si trova sempre più spesso ad essere letteralmente sommersa da una capitolazione probatoria di carattere "alluvionale".

Sulla base di un sempre più frequente malinteso "scrupolo defensionale" l'avvocatura deposita atti introduttivi e memorie istruttorie che contengono nella gran maggioranza dei casi oltre 30 capitoli di prova per ciascuna parte, con punte non rare di 100 capitoli.

Non posso e non devo contestare tale capitolazione, quando la stessa riguarda, tanto per fare alcuni esempi, numerosi episodi di fatto illecito, oppure il possesso a vari fini di numerosi beni immobili o l'esecuzione di lavori in appalti complessi.

Quello che però appare inaccettabile è la disinvolta richiesta di ammissione di prove su fatti evidentemente non dimostrabili con prove orali. Si susseguono nell'esperienza giudiziale di chi scrive capitoli di prova su fatti già provati da documenti prodotti dalle stesse parti.

Si è ormai smesso di contare i capitoli del tipo "vero che Tizio è deceduto in data", oppure "si è sposato in data", o anche "è residente in via", o altrimenti del tipo "vero che il contratto è stato stipulato in data x", oppure "contiene una clausola risolutiva espressa".

In molti anni di lavoro ciascun giudice può ricordare centinaia di capitoli di prova evidentemente generici sia in ordine al modo (il classico "vero che Tizio ha posseduto il terreno"), e sia in riferimento al tempo ed al luogo ("vero che Tizio informava Caio della circostanza", senza indicazione né del momento e neppure del luogo in cui tale informazione sarebbe stata trasmessa).

Tutti questi capitoli, ed altri ancora (non dovendosi dimenticare tutti gli elementi valutativi che spesso il giudice è costretto ad eliminare dalle richieste probatorie delle parti) incidono in modo cospicuo sulla tempistica del giusto processo, costringendo il giudicante ad un lungo ed estenuante lavoro di eliminazione degli stessi.

Non si deve poi trascurare anche l'aumento del lavoro per il difensore della controparte, che viene costretto a contestazioni spesso inutili.

La riflessione da avviare è pertanto la seguente.

Poiché gli avvocati italiani risultano nella stragrande maggioranza consapevoli dei limiti della capitolazione, perché quasi sempre criticano in modo pertinente le prove avversarie, i consigli dell'ordine dovrebbero utilizzare almeno una sessione all'anno tra quelle previste per l'aggiornamento professionale per ribadire i limiti ben noti delle richieste probatorie.

In tali occasioni sarebbe opportuno far partecipare i magistrati, al fine di evidenziare il carattere spesso dannoso per le esigenze del cliente che deriva da tale capitolazione, che rende meno chiara la domanda o l'eccezione agli occhi di chi giudica.

Certamente le scuole forensi dovrebbero istituzionalizzare l'insegnamento di tali limiti, al fine di formare i futuri avvocati in modo adeguato.

Naturalmente un impegno formativo di questo tipo non può non coinvolgere anche la scuola della magistratura, che attraverso l'ascolto di relatori appartenenti all'avvocatura dovrebbe educare i giovani magistrati a comprendere le ragioni difensive che sono sottese alle capitolazioni probatorie, non sempre inammissibili.

In attesa di tempi migliori, proporrei ai difensori un suggerimento (semiserio), sperando che anch'esso non incorra in qualche divieto normativo.

Allo scopo di evitare pronunce di inammissibilità, mi sembrerebbe opportuno, se proprio si vuole anteporre una locuzione ai capitoli di prova, proporre l'uso del "forse che".

Ponendo infatti anche un elemento di dubbio in ordine ai fatti capitolati, ben difficilmente i capitoli incorrerebbero nella sanzione di inammissibilità, anche se dovesse affermarsi nella giurisprudenza l' interpretazione proposta dall' ordinanza commentata.

Dott. Andrea Del Nevo
Giudice del tribunale di Genova


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