La Cassazione ha ritenuto responsabile del suicidio per depressione il medico psichiatra che aveva in cura la vittima. Vediamo perchè

Avv. Emanuela Foligno - E' approdato in Cassazione l'emblematico caso di una donna in terapia psichiatrica che si è tolta la vita. Gli Ermellini (nella sentenza n. 33609/2016, qui sotto allegata) hanno ritenuto responsabile di tale suicidio il medico psichiatra che aveva in cura la donna.

Tale tesi è stata sostenuta anche dai familiari della donna in considerazione delle gravi condizioni di salute sofferte dalla stessa.

In particolare, la donna era in cura psichiatrica poiché affetta da una grave forma depressiva e labilità emotiva che in passato l'avevano indotta a svariati tentativi di suicidio.

I familiari della vittima, quindi, si rivolgono al Tribunale per chiedere la condanna del professionista. La CTU espletata nel corso del giudizio di primo grado ha confermato che la defunta era da considerarsi ad alto rischio e avrebbe necessitato di stretta sorveglianza, oltre ad un accurato protocollo farmacologico.

Lo psichiatra, invece, non aveva ritenuto di adottare i rimedi suggeriti dalla CTU.

I giudici di primo e secondo grado condannano lo psichiatra per omicidio colposo in violazione della disciplina sull'esercizio della professione medica.

Il medico ricorre in Cassazione eccependo, tra gli altri motivi, il vizio di travisamento della prova riguardo la morte della donna, che a suo dire, era da attribuirsi ad un malore di natura vascolare e non al suicidio.

I giudici di legittimità, svolgono una impeccabile e interessante disamina sull'applicabilità e la ratio dell'art. 606 c.p.p., per giungere, poi - ancorandosi a precedenti pronunce secondo cui lo psichiatra è stato ritenuto titolare di una posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti, i quali se presentano condotte autolesive o suicide devono essere specificatamente trattati - a rilevare la grave negligenza dello psichiatra che aveva finanche interrotto la terapia farmacologica alla donna.

Viene inoltre evidenziato che proprio le condizioni della donna nell'immediatezza dell'evento infausto evidenziavano palesemente il rischio concreto di un ulteriore tentativo di suicidio. Tali condizioni sono state trascurate dallo psichiatra con superficialità e negligenza.

La Suprema Corte considera tutti infondati i motivi di ricorso proposti dal medico e conferma la condanna dello stesso.

Significativo il richiamo presente nella pronuncia qui oggetto di commento ad un caso di omicidio per mano di un paziente psicotico (cfr., Cass. Pen. N. 10795/2008, leggi: "Cassazione: psichiatra responsabile per il paziente psicotico che uccide

"). In tale circostanza esaminata dalla Suprema Corte uno psichiatra era stato condannato per avere trascurato i particolari sintomi di aggressività di un proprio paziente ricoverato all'interno di una struttura, il quale ha ucciso un operatore sanitario dipendente della struttura medesima. Anche in questo caso gli Ermellini discorrono di posizione di garanzia in capo al paziente, a prescindere dal regime di ricovero, e di correlativo obbligo in capo al medico di impedire eventi lesivi perpetrati da pazienti sottoposti alle sue cure.

Significativamente i giudici di piazza Cavour, che riconducono la colpa dello psichiatra alla riduzione ed eliminazione della terapia farmacologica all'omicida, specificano che l'aspetto che rileva non è la libertà delle scelte terapeutiche del medico, bensì il benessere del paziente che deve essere curato in maniera commisurata alla sua situazione patologica.

Avv. Emanuela Foligno

Viale Regina Margherita, 30 Milano

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Cassazione Penale 33609/2016

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