Il Tribunale di Roma sul caso "Megavideo" condanna l'operatore per la complessa organizzazione di sfruttamento pubblicitario ed economico

di Lucia Izzo - La messa a disposizione del pubblico, ossia di un indeterminato, e potenzialmente numeroso, numero di utenti, di contenuti in streaming, non consistenti nella mera memorizzazione di contenuti caricati da diverse fonti, è attività che non si può inquadrare in quella svolta dalla figura del c.d. '"hosting provider" prevista dall'art. 16 d. lgs. n.70/2003.


Lo ha precisato il Tribunale delle Imprese di Roma, sentenza n. 14279/2016 (qui sotto allegata) riguardante la controversia RTI contro MEGAVIDEO.

Nel merito, osserva il giudice, la R.T.I. lamenta lo sfruttamento illecito da parte della società convenuta dei diritti sui programmi televisivi, di cui essa attrice è produttrice e/o titolare, tramite la trasmissione, sulla piattaforma "streaming" gestita dalla società convenuta medesima, dei filmati di detti programmi.


Va evidenziato, al riguardo, che, nel caso di specie, non si può inquadrare l'attività svolta dalla società convenuta in quella svolta dalla figura del c.d. '"hosting provider", attività prevista dall'art. 16 d.lgs. n. 70/2003, consistente nella mera memorizzazione di informazioni fomite dal destinatario del servizio, e per la quale attività è escluso un obbligo generale di sorveglianza ed è previsto che la società di informazione non sia responsabile delle informazioni memorizzate, a condizione che non abbia conoscenza dell'illiceità ed a condizione che appena ne venga a conoscenza, su comunicazione delle autorità competenti, rimuova l'informazione disabilitando l'accesso.


Invece, dalle perizie di parte è emerso che i files contenuti sulla piattaforma in discussione erano trasmessi "in streaming", quindi usufruibili da un indeterminato, e potenzialmente numeroso, numero di utenti e classificati in speciali categorie a seconda dei contenuti dei filmati.

Inoltre, la società convenuta, tramite la piattaforma in oggetto, organizzava con diverse modalità e metteva a disposizione degli utenti contenuti audiovisivi provenienti da diverse fonti, prevedendo l'offerta gratuita di contenuti per un periodo limitato di tempo al giorno ovvero a pagamento, tramite il pagamento di abbonamenti e, comunque, a fronte di una intensa raccolta di pubblicità in grado di generare ricavi anche significativi ove si consideri che la raccolta pubblicitaria online riguardava tutte le inserzioni diffuse su internet e parametrata a seconda dell'origine geografica del cliente che richiedeva la visione dei filmati.


È evidente, quindi, che il mercato dell'ascolto, in parte a pagamento, ed il mercato pubblicitario erano fonte di cospicui ricavi, i quali erano strettamente collegati ai contenuti dei filmati a disposizione, avendo questi il ruolo di attrarre i clienti, al fine di far acquistare gli abbonamenti e di determinare il successo pubblicitario e, quindi, di assicurare il successo economico conseguente alla gestione della piattaforma.


Un sistema così meticolosamente organizzato e in continua evoluzione, per i giudici è del tutto incompatibile con la figura del semplice hosting, rappresentando un sofisticato content-provider che fornisce contenuti di intrattenimento digitale, distribuendo i diversi video nelle rispettive categorie indicate nella home page e collegando ad essi i diversi messaggi pubblicitari, cercando di fidelizzare i clienti tramite l'offerta di abbonamenti per evitare il limite temporale di visione dei video presenti sulla piattaforma.


L'attività svolta dalla convenuta non può quindi ricondursi nell'ambito del mero hosting (definito "hosting passivo" dalla giurisprudenza) che si limita ad attivare il processo tecnico che consente l'accesso alla piattaforma di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo fine di rendere più efficiente la trasmissione.

Trattandosi invece di una complessa organizzazione di sfruttamento pubblicitario ed economico (abbonamenti) dei contenuti immessi in rete e dettagliatamente organizzati, si ritiene l'inapplicabilità in relazione a questa attività dell'art. 16 del suddetto d.lgs. n. 70/2003 e la relativa esenzione da responsabilità, considerandosi, invece, provata la sussistenza della responsabilità della società convenuta nella violazione dei diritti di esclusiva di cui la società attrice era titolare.


Un principio che si inserisce nel solco tracciato dalla giurisprudenza ormai consolidata italiana e comunitaria che ha delineato il ruolo attivo di tali operatori, sottratto dal beneficio della irresponsabilità prevista dall'art. 15 della Direttiva CE 31/2000 per i fatti illeciti commessi dai destinatari dei sevizi per la mera fornitura dei servizi di accesso.


Tale orientamento giurisprudenziale è egualmente uniforme nel ritenere comunque che anche l'hosting c.d. "attivo" non può essere soggetto ad un obbligo generale di sorveglianza e di procedere ad un controllo preventivo del materiale immesso in rete dagli utenti, in quanto ciò si risolverebbe in una inammissibile compressione del diritto di informazione e della libertà di espressione e comprometterebbe il necessario equilibrio che deve esserci tra la tutela del diritto d'autore ed appunto la libertà d'impresa nel campo della comunicazione.


In ordine alla richiesta di risarcimento del danno patrimoniale, premesso che non è stato possibile quantificare il fatturato della società convenuta in ordine all'attività contestata per la mancanza della relativa documentazione amministrativa e contabile, il Tribunale ritiene che il danno possa liquidarsi in via equitativa utilizzando, come parametro, il c.d. "prezzo del consenso" e, cioè, la somma di denaro che l'utilizzatore avrebbe dovuto pagare per il tempo e secondo le modalità di utilizzazione dei filmati, fissata in euro 12.100.000,00, oltre gli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al saldo.

Tribunale di Roma, sent. n. 14279/2016

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