La Consulta dichiara costituzionalmente illegittimo l'art. 649 c.p.p. e salva i dirigenti il cui reato giudicato è prescritto

di Lucia Izzo - Il principio del ne bis in idem va applicato a 360° gradi in modo da tutelare maggiormente i cittadini. Tanto emerge dalla complessa sentenza n. 200/2016 (qui sotto allegata) con cui la Corte Costituzionale si è espressa sulla legittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p.

La Corte ha dichiarato la norma costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, nella parte in cui secondo il diritto vivente esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale.


In particolare, nel processo penale da cui è derivata la rimessione al Giudice delle leggi, erano stati contestanti i reati di disastro doloso (art. 434 del codice penale) e di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437 cod. pen.), in danno di numerose persone. Ben 186 di queste figurano tra le 258 vittime dei delitti di omicidio, per i quali è stata nuovamente esercitata l'azione penale, reati che l'imputato avrebbe commesso nella sua qualità di dirigente di stabilimenti della società Eternit


Il primo giudizio si era risolto, infatti, con un proscioglimento per intervenuta prescrizione, ma successivamente la Procura aveva contestato all'unico imputato rimasto, il delitto di omicidio doloso, nonostante fosse già stato giudicato in via definitiva per il medesimo fatto storico e prosciolto.

Da qui viene solelvata la questione di  legittimità costituzionale dell'art. 649 del codice di procedura penale

, nella parte in cui tale disposizione limita l'applicazione del principio del ne bis in idem all'esistenza del medesimo "fatto giuridico", nei suoi elementi costitutivi, sebbene diversamente qualificato, invece che all'esistenza del medesimo "fatto storico"


Il giudice a quo osserva che, sotto il profilo storico-naturalistico, i fatti devono ritenersi identici. Le imputazioni si incentrano sulle attività svolte dall'imputato, nella qualità di responsabile di alcuni stabilimenti ove veniva impiegato l'amianto, e riguardano l'omissione di misure idonee a prevenire la lesione dell'integrità fisica dei  lavoratori e la diffusione di materiali contaminati dalla sostanza cancerogena, con conseguente morte di 258 persone


Il rimettente, citando ampiamente la  giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, reputa che il divieto di bis in idem in materia penale enunciato dall'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU abbia carattere più ampio della corrispondente regola prevista dall'art. 649 cod. proc. pen., norma di dubbia legittimità costituzionale, nella parte in cui, in base al diritto vivente nazionale, per valutare la medesimezza del fatto stabilisce criteri più restrittivi di quelli ricavati dalla CEDU. 


In base a quest'ultima norma, infatti, l'imputato andrebbe prosciolto per la sola circostanza che le azioni e le omissioni che hanno causato gli omicidi sarebbero, sul piano storico-naturalistico, quelle per le quali è già stato giudicato in altro processo penale in via definitiva. Non avrebbe alcun rilievo in senso contrario la circostanza che l'evento, ovvero la morte delle vittime, non sia stato in quella prima sede oggetto di accertamento.


Venendo al merito della questione, evidenzia la Corte, si tratta di verificare se davvero il principio del ne bis in idem in materia penale, abbia un campo applicativo diverso e più favorevole all'imputato del corrispondente principio recepito dall'art. 649 cod. proc. pen.

Tale principio, precisano i giudici, appare una tra le più penetranti e invasive manifestazioni del potere sovrano dello Stato-apparato, che si innesta nel tessuto dei valori costituzionali pur non essendovi espressamente menzionato.

Costituzione e CEDU si saldano, dunque, nella garanzia che la persona già giudicata in via definitiva in un processo penale non possa trovarsi imputata per il medesimo fatto storico.


Tuttavia, l'identità del "fatto" sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona.

Tale conclusione non impone di applicare il divieto di bis in idem per la esclusiva ragione che i reati concorrono formalmente e sono perciò stati commessi con un'unica azione o omissione.


Per i giudici, è infatti facilmente immaginabile che all'unicità della condotta non corrisponda la medesimezza del fatto, una volta che si sia precisato che essa può discendere dall'identità storico-naturalistica di elementi ulteriori rispetto all'azione o all'omissione dell'agente, siano essi costituiti dall'oggetto fisico di quest'ultima, ovvero anche dal nesso causale e dall'evento. Tale ultima posizione, in particolare, è fatta propria dal diritto vivente nazionale e se ne è già accertata la compatibilità con la Costituzione e con lo stato attuale della giurisprudenza europea.


Allo stato attuale del diritto vivente il rinnovato esercizio dell'azione penale è consentito, in presenza di un concorso formale di reati, anche quando il fatto, nel senso indicato, è il medesimo sul piano empirico, ma forma oggetto di una convergenza reale tra distinte norme incriminatrici, tale da generare una pluralità di illeciti penali.


In definitiva l'esistenza o no di un concorso formale tra i reati oggetto della res iudicata e della res iudicanda è un fattore ininfluente ai fini dell'applicazione dell'art. 649 cod. proc. pen., una volta che questa disposizione sia stata ricondotta a conformità costituzionale, e l'ininfluenza gioca in entrambe le direzioni, perché è permesso, ma non è prescritto al giudice di escludere la medesimezza del fatto, ove i reati siano stati eseguiti in concorso formale. Ai fini della decisione sull'applicabilità del divieto di bis in idem rileva infatti solo il giudizio sul fatto storico.


Sussiste perciò il contrasto denunciato dal rimettente tra l'art. 649 cod. proc. pen., nella parte in cui esclude la medesimezza del fatto per la sola circostanza che ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda, e l'art. 4 del Protocollo n. 7 alla CEDU, che vieta invece di procedere nuovamente quando il fatto storico è il medesimo.


Per effetto della presente pronuncia di illegittimità costituzionale, pertanto, l'autorità giudiziaria (e quindi lo stesso giudice a quo) sarà tenuta a porre a raffronto il fatto storico, secondo la conformazione identitaria che esso abbia acquisito all'esito del processo concluso con una pronuncia definitiva, con il fatto storico posto dal pubblico ministero a base della nuova imputazione. 

A tale scopo è escluso che eserciti un condizionamento l'esistenza di un concorso formale, e con essa, ad esempio, l'insieme degli elementi indicati dal rimettente nel giudizio principale (la natura del reato; il bene

giuridico tutelato; l'evento in senso giuridico).


Sulla base della triade condotta-nesso causale-evento naturalistico, il giudice può affermare che il fatto oggetto del nuovo giudizio è il medesimo solo se riscontra la coincidenza di tutti questi elementi, assunti in una dimensione empirica, sicché non dovrebbe esservi dubbio, ad esempio, sulla diversità dei fatti, qualora da un'unica condotta scaturisca la morte o la lesione dell'integrità fisica di una persona non considerata nel precedente giudizio, e dunque un nuovo evento in senso storico. 

Corte Costituzionale, sent. n. 200/2016

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