Per i giudici bisogna tenere conto che se vittima e persona offesa vivono nello stesso palazzo, l'allontanamento corrisponderebbe a un divieto di dimora

di Marina Crisafi - Non si può condannare il vicino stalker ad allontanarsi dai luoghi frequentati dalla vittima ex art. 282-bis c.p.p. se nei fatti ciò corrisponde a un divieto di dimora. Non si può infatti sorvolare il fatto che vittima e imputato abitano nello stesso palazzo, per cui il giudice nell'applicazione della misura deve contemperare l'esigenza di tutela della persona offesa con adeguato sacrificio delle libertà dell'imputato, in modo da non "trasmodare in una limitazione di un diritto fondamentale quale quello collegato all'uso della propria abitazione". Ad affermarlo è la quinta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 30926/2016 (qui sotto allegata), pronunciandosi su una tradizionale vicenda di stalking condominiale.

Nella fattispecie, il tribunale del riesame confermava nei confronti di una donna condannata in primo grado per il delitto di cui all'art. 612-bis c.p. la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, con divieto di avvicinarsi alla stessa e al condominio salvo che nella fascia oraria compresa tra le 10 e le 12.

La donna ricorreva innanzi al Supremo Collegio, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione ritenendo che con la disposta misura fosse stata applicata cumulativamente anche la misura di cui all'art. 282-bis c.p.p. oltre che quella di cui all'art. 283-ter c.p.p., atteso che la stessa abitando nel medesimo condominio della persona offesa, di fatto risultava sottoposta anche all'obbligo di allontanamento dalla propria abitazione.

Trattandosi di liti condominiali ossia di fatti di ingiuria e molestie commesse anche con il mezzo del telefono, lo stesso pm aveva chiesto al giudice di modulare la misura in modo da consentire alla ricorrente di poter comunque continuare ad abitare la propria casa, per cui il provvedimento appare esorbitante rispetto alla richiesta.

Per gli Ermellini, il ricorso è fondato e va accolto.

Occorre ricordare, infatti, ha sottolineato anzitutto la Corte il reiteratamente affermato principio "secondo cui l'ordinanza che dispone ex art. 282-ter cpp il divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa deve, a pena di illegittimità, determinare specificamente i detti luoghi oggetto di divieto, poiché il soggetto sottoposto alla misura non può preventivamente conoscere i luoghi ai quali gli è inibito l'accesso in via assoluta, in quanto frequentati dalla persona offesa, con la conseguente necessità che detti luoghi siano specificamente indicati poiché solo in tal modo il provvedimento cautelare assume una conformazione completa che consente il controllo dell'osservanza delle prescrizioni funzionali al tipo di tutela che la legge intende assicurare".

Tuttavia, ciò che conta hanno statuito dal Palazzaccio "è impedire che la persona sottoposta alla misura stessa si avvicini fisicamente alla persona offesa".

L'esigenza di primaria importanza è dunque "la garanzia della libertà di movimento e di relazioni sociali della persona offesa da possibili intrusioni dell'indagato, che, facendo temere la vittima per la propria incolumità - finiscano - per condizionare e pregiudicare la fruizione di dette libertà".

In termini più generali, ha stabilito la S.C., "il riferimento oggettuale del divieto di avvicinamento non più solo ai luoghi frequentati dalla persona offesa, ma altresì alla persona offesa in quanto tale, esprime una precisa scelta normativa di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo".

In altre parole la norma "esprime una scelta di priorità dell'esigenza di consentire alla persona offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in condizioni di sicurezza da aggressioni alla propria incolumità anche laddove la condotta dell'autore del reato assuma connotazioni di persistenza persecutoria tale da non essere legata a particolari ambiti locali; con la conseguenza che è rispetto a tale esigenza che deve modellarsi il contenuto concreto di una misura la quale, non lo si dimentichi ha comunque natura inevitabilmente coercitiva rispetto a libertà anche fondamentali dell'indagato".

In sostanza, la misura di cui all'art. 282-ter c.p.p. va graduata in base alle esigenze di cautela del caso concreto. E nel caso di specie, la predeterminazione dei luoghi risulterebbe "chiaramente dissonante con le finalità della misura", ponendosi di fatto come un'inammissibile limitazione del libero svolgimento della vita sociale della persona offesa, costretta a contenere la propria libertà di movimento nell'ambito dei luoghi indicati ovvero ad essere esposta al pericolo nei luoghi al di fuori del perimetro della frequentazione della persona offesa.

Del resto, anche "la limitazione delle libertà fondamentali dell'indagato/imputato deve essere sempre e comunque operata in rapporto di proporzionalità con le esigenze cautelari e con le contrapposte specifiche esigenze di tutela della persona offesa, avuto riguardo alla peculiare manifestazione della condotta lesiva".

Per cui, nella fattispecie, considerato il fatto che entrambe le donne abitano nel medesimo stabile, ha concluso la Corte, sarebbe stato meglio modulare la prescrizione imponendo all'imputata il divieto di avvicinarsi alla vicina con la prescrizione di allontanarsi dalla predetta in tutte le occasioni di incontro prescindendo dalla specificazione dei luoghi in cui gli incontri potessero verificarsi.

Parola dunque al giudice del rinvio.

Cassazione, sentenza n. 30926/2016

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