Per gli immobili ad uso diverso da quello abitativo, nulla la pattuizione avente ad oggetto l'aumento del canone e il conduttore può veder restituito quando versato in eccesso

di Lucia Izzo - In tema di locazioni di immobili ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione che abbia ad oggetto non già l'aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell'art. 32 della legge 27 luglio 1978, n. 392, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, primo comma, della stessa legge, e il conduttore può chiedere la restituzione, entro sei mesi dalla riconsegna dell'immobile, di quanto versato in eccesso.


Questo è quanto stabilito dalla Corte di Cassazione, terza sezione civile, nella sentenza 13011/2016 (qui sotto allegata).

La vicenda origina dalla domanda proposta dalla locatrice di un immobile ad uso ufficio, volta ad ottenere lo sfratto per morosità nel pagamento di canoni (relativi agli ultimi sei mesi del 2008 e a due mesi del 2009), la risoluzione per grave inadempimento e la conseguente condanna al pagamento del relativo importo. La domanda è accolta in primo grado e confermata dalla Corte d'Appello, mentre il contratto viene dichiarato risolto e la conduttrice condannata al rilascio e al pagamento dei canoni richiesti.


Ciononostante, la conduttrice lamenta, in sede di legittimità, la violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c., sostenendo che la Corte territoriale aveva sbagliato nel considerare nuova in appello, e già nuova in primo grado per essere stata proposta con le note conclusive, la domanda proposta dalla convenuta riguardante la declaratoria di inefficacia dell'aumento del canone effettuato unilateralmente dalla locatrice nel corso del rapporto. Questo, in violazione dell'art. 32, l. n. 392 del 1978, sarebbe stato anche ben superiore agli adeguamenti Istat.


Doglianza che la Corte ritiene fondata.

I giudici precisano che le argomentazioni volte a sostenere la prospettazione della illegittimità dell'aumento del canone già in primo grado al fine di negare carattere di novità al motivo di appello, diventano irrilevanti alla luce della decisione delle Sezioni Unite n. 26243 del 2014.

Secondo quanto stabilito dal Collegio, infatti, la domanda di accertamento della nullità di un negozio proposta per la prima volta in appello è inammissibile ex art. 345, primo comma, cod. proc. civ., salva la possibilità per il giudice del gravame (obbligato comunque a rilevare di ufficio ogni possibile causa di nullità, ferma la sua necessaria indicazione alle parti ai sensi dell'art. 101, secondo comma, cod. proc. civ.) di convertirla ed esaminarla come eccezione di nullità legittimamente formulata dall'appellante, giusto il secondo comma del citato art. 345, principio che opera anche riguardo alle controversie in materia di locazione.


Nel caso di specie si verte proprio in un'ipotesi di nullità del negozio, posto che secondo  la giurisprudenza consolidata della Corte di legittimità, in tema di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello abitativo, ogni pattuizione avente ad oggetto non già l'aggiornamento del corrispettivo ai sensi dell'art. 32 della legge 27 luglio 1978, n. 392, ma veri e propri aumenti del canone, deve ritenersi nulla ex art. 79, primo comma, della stessa legge, in quanto diretta ad attribuire al locatore un canone più elevato rispetto a quello legislativamente previsto, senza che il conduttore possa, neanche nel corso del rapporto, e non soltanto in sede di conclusione del contratto, rinunciare al proprio diritto di non corrispondere aumenti non dovuti.


Tale nullità opera anche per le pattuizioni che intervengono nel corso del rapporto: infatti, il diritto a non erogare somme in misura eccedente il canone legalmente dovuto sorge al momento della conclusione del contratto, persiste durante tutto il corso del rapporto, e può essere fatto valere, in virtù di espressa disposizione legislativa, dopo la riconsegna dell'immobile locato, entro il termine di decadenza di sei mesi. 


Pertanto, il primo motivo di ricorso va accolto e consegue l'assorbimento del secondo motivo che era stato avanzato dalla ricorrente.

Cass., III sez. civ., sent. 13011/2016

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