Abuso di diritto se il dipendente utilizza le ore di permesso per scopi personali e non per l'assistenza del parente disabile

di Lucia Izzo - Legittimo il licenziamento del lavoratore che abbia utilizzato gran parte del "permesso" ex Legge 104/92 per scopi personali e non per assistere il parente disabile. Non è ammissibile, infatti, un'assistenza solo parziale delle ore concesse dal datore di lavoro che, per sopperire all'assenza del dipendente, deve sopportare modifiche organizzative per esigenze di ordine generale


Lo ha disposto la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 9217/2016 (qui sotto allegata). 

Inutile il ricorso del dipendente di un'azienda automobilistica: anche gli Ermellini, infatti, condividono l'apparato argomentativo dei giudici di merito e stabiliscono la correttezza del provvedimento, seppur drastico, adottato dall'azienda.


Il ricorrente, infatti, aveva richiesto alcuni permessi ex L. n. 104/1992 per prendersi cura della cognata, non convivente, affetta da grave disabilità.

Tuttavia, come accertato da un'Agenzia investigativa assoldata dall'azienda, il dipendente aveva assistito la cognata per un numero di ore assai minore rispetto a quelle previste dal permesso: in una prima occasione trascorreva solo 4 ore e 15 minuti presso l'abitazione dell'assistita e, in una seconda occasione, solo 3 ore e 25 minuti.


Tale comportamento, senza alcun dubbio per il giudice di seconde cure, integra la figura dell'abuso del diritto in relazione a permessi che dovevano essere svolti in coerenza con la loro funzione, posto che per oltre due terzi del tempo previsto il lavoratore non aveva svolto alcuna attività assistenziale.


Un simile comportamento viola i principi di correttezza e buona fede e il fatto (non previsto espressamente dal CCNL) è certamente di gravità tale da comportare il venir meno del vincolo fiduciario tra lavoratore e datore. Irrilevante a tal fine che l'assistenza fosse stata in parte fornita e l'insussistenza di un danno quantificabile.


Conclusione condivisa dagli Ermellini, nonostante i confusi episodi menzionati dalla difesa per dimostrare che l'assistenza fosse stata effettivamente svolta: come verificato dall'Agenzia

investigativa, l'assistenza per la quale il permesso fu richiesto non fu effettuata per l'orario dovuto in quanto il ricorrente si occupò di altro, nonostante la richiesta di un permesso per assistenza presupponga, come logico, che ci si obblighi effettivamente a fornirla "senza che sia lecito occuparsi proprio in quelle ore, come sembra di capire, di sospetti pericoli di furti nella propria abitazione o pedinamenti anomali e via dicendo". 


Si tratta di circostanze che non sono in alcuna contraddizione obiettiva con l'accertamento effettuato dai Giudici di appello, per i quali l'assistenza alla disabile non fu effettuata per tre giorni per la maggior parte dei tempo poiché il ricorrente si dedicò ad "attività estranee all'assistenza alla cognata disabile". 


Viene, inoltre, confermato l'orientamento di legittimità secondo cui "il comportamento del prestatore di lavoro subordinato che, in relazione al permesso ex art. 33 L. n. 104/1992, si avvalga dello stesso non per l'assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l'ipotesi dell'abuso di diritto, giacché tale condotta si palesa, nei confronti del datare di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell'affidamento riposto nel dipendente ed integra nei confronti dell'Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un'indebita percezione dell'indennità ed uno sviamento dell'intervento assistenziale ".


La mancata assistenza fornita alla disabile per due terzi del tempo dovuto o , n base agli stessi riferimenti del ricorrente, per metà del tempo dovuto, integra grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell'Ente assicurativo.


Neppure il dipendente può dolersi del fatto che sia stata assoldata un'Agenzia investigativa: la disposizione dell'art. 5 della legge 20 maggio 1970, n.300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datare medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l'insussistenza della malattia o la non idoneità di quest'ultima a determinare uno stato d'incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l'assenza. 


Risulta, pertanto, giustificato e legittimo il recesso del datore di lavoro.

Cass., sezione lavoro, sent. 9217/2016

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