Rimborsate le retribuzioni dovute. Illegittimo il rifiuto di spostare il dipendente vicino al congiunto in assenza di ragioni organizzative e produttive

di Lucia Izzo - Il lavoratore a cui è stata negata richiesta di trasferimento ai sensi della legge 104/1992, per assistere il genitore con handicap, ha diritto al risarcimento per il periodo trascorso in aspettativa.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione, sezione Lavoro, nella sentenza n. 5900/2016 (qui sotto allegata).


Il caso sottoposto all'attenzione dei giudici di Piazza Cavour riguarda una lavoratrice che aveva richiesto, ai sensi della legge n. 104/1992, di essere trasferita in diversa sede dell'azienda presso la quale lavorava così da poter assistere la madre affetta da grave handicap fisico che la rendeva bisognosa di assistenza continua.

Stante il rifiuto della società di concederle il trasferimento, la donna chiedeva un periodo di aspettativa in modo da potersi dedicare all'assistenza del familiare.


Solo a seguito dell'intervento dei giudici, alla lavoratrice viene riconosciuto il diritto ad essere trasferita dalla filale laziale dell'azienda presso cui lavora (Poste Italiane S.p.a.) alla filiale campana più vicina alla madre; in aggiunta, la Corte d'Appello, condanna la società al il risarcimento nei confronti della dipendente dei danni conseguenti al mancato accoglimento della domanda, quantificato in misura pari alle retribuzioni dovute dal mese in cui la lavoratrice aveva domandato il trasferimento, sino al rientro dall'aspettativa.


Inutile per l'azienda ricorrere in sede di legittimità: gli Ermellini riconoscono l'interesse ad agire della donna, malgrado il decesso della madre sopravvenuto nel 2004, alcuni anni dopo la richiesta di aspettativa terminata nel 2002.

Evidenziano i giudici che nel caso di specie l'interesse all'accertamento del diritto al trasferimento della donna, ai sensi della citata legge n. 104/92, è inscindibilmente connesso a quello, che permane, di ottenere il risarcimento del danno per essere stata la lavoratrice, vista la lontananza della propria sede di lavoro, costretta a chiedere l'aspettativa per poter assistere la madre.


Inoltre,  l'arco di tempo in relazione al quale è stato riconosciuto il risarcimento non va oltre la data di termine dell'aspettativa, periodo sicuramente anteriore al decesso della madre dell'odierna controricorrente.


Inconsistenti anche le doglianze secondo cui la gravata pronuncia avrebbe accolto la domanda della lavoratrice senza che questa avesse provato, pur essendone onerata, di essere l'unica in grado di assistere con continuità la madre disabile; stessa sorte anche per le censure che paventano comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive ostative al trasferimento richiesto.


Tali motivi, chiariscono i giudici, vanno disattesi poiché suggeriscono una rivisitazione del materiale di causa affinché se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata, operazione inammissibile per la Suprema Corte a cui spetta soltanto il sindacato sulle massime di esperienza adottate nella valutazione delle risultanze probatorie, nonché la verifica sulla correttezza logico-giuridica del ragionamento seguito e delle argomentazioni sostenute, senza che ciò possa tradursi in un nuovo accertamento, ossia nella ripetizione dell'esperienza conoscitiva propria dei gradi precedenti.


In sede d'appello dall'istruttoria di causa è emerso che la madre convivente della lavoratrice era portatrice di grave handicap fisico che la rendeva bisognosa di assistenza continua e che nel nucleo familiare della ricorrente costei era l'unica in grado di prestare tale assistenza.


Inoltre, la gravata pronuncia ha altresì accertato molteplici trasferimenti che, nel periodo in contestazione, la società ricorrente ha disposto presso quella stessa sede cui aspirava la dipendente, a dimostrazione dell'inesistenza di ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo ostative al trasferimento richiesto.

In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Cass., sezione lavoro, sent. 5900/2016

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