Nessun reato di appropriazione indebita ma esercizio del diritto di ritenzione, se la donna è creditrice nei confronti dell'ex marito

di Marina Crisafi - Non è punibile per appropriazione indebita la moglie che fa sparire i mobili dalla casa dell'ex marito. Lo ha stabilito la Corte d'Appello di Palermo, in una recente sentenza (la n. 2349/2015 qui sotto allegata) dando ragione ad una donna condannata in primo grado a due mesi di carcere, oltre alla multa e al risarcimento del danno, per il reato ex art. 646 c.p. per aver "svuotato" la casa dell'ex coniuge, appropriandosi di arredi, mobili e suppellettili nella stessa detenuti e trasportandoli presso la propria.

La donna proponeva appello, lamentando, tra le altre cose, che i beni mobili in questione erano di proprietà comune e non solo dell'ex e sostenendo di averli semplicemente spostati da un appartamento all'altro, invocando, infine, la carenza dell'elemento soggettivo del reato contestato.

Per il giudice d'appello, la donna ha ragione.

Il reato di appropriazione indebita sussiste, ha affermato infatti la corte, quando c'è la consapevolezza da parte dell'agente di conseguire un ingiusto profitto.

Nel caso di specie, invece, non solo, non risulta provata la volontà dell'imputata di appropriarsi dei beni mobili in oggetto, ma occorre tenere conto della circostanza che quanto meno una parte degli stessi ricadeva nella comunione legale tra i coniugi.

Senza contare, inoltre, che (come risultante dall'atto di opposizione a precetto) l'imputata era creditrice nei confronti dell'ex marito per i lavori di miglioramento effettuati nell'appartamento stesso, in precedenza adibito a casa coniugale. E l'espressa dichiarazione della donna di avvalersi del diritto di ritenzione previsto dall'art. 1152 c.c. per il possessore di buona fede, è "evidentemente, incompatibile con la volontà della stessa di appropriarsi dei medesimi immobili al fine di trarne un ingiusto profitto".

Per cui, l'imputata va assolta perché il fatto non costituisce reato.

Corte d'Appello di Palermo, sentenza n. 2349/2015

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