Il giudice, anche d'appello, può qualificare il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo

di Lucia Izzo - La lavoratrice rischia il posto per la prolungata e ingiustificata assenza da lavoro, ma il licenziamento in tronco appare eccessivo. 

Il giudice, anche d'impugnazione, deve pronunciarsi sulla possibilità che un licenziamento intimato per giusta causa possa essere qualificato in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo, altrimenti incorre nella censura di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c.


Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, sezione lavoro, nella sentenza n. 21/2016 (qui sotto allegata). 

La Corte d'appello aveva confermato quanto stabilito dal giudice di prime cure, dichiarando illegittimo il licenziamento intimato da una s.r.l. alla lavoratrice, condannandola alla reintegrazione della stessa nel proprio posto di lavoro e a rifonderle i danni ex art. 18 St. lav. 


Il provvedimento disciplinare concerneva un'assenza ingiustificata della donna dal posto di lavoro, prolungatasi per oltre quattro giorni e a seguito di diniego della società a concederle le ferie: per i giudici del gravame, tale comportamento avrebbe potuto dare luogo soltanto al licenziamento col preavviso. 


La società ricorre dinnanzi alla Corte di Cassazione e le doglianze proposte trovano parziale accoglimento. 

Da un lato, a nulla serve contestare l'insubordinazione della lavoratrice, assentatasi nonostante le fossero state espressamente denegate le ferie, poiché la società ricorrente ha contestato unicamente l'assenza ingiustificata protrattasi per oltre quattro giorni.

I giudici chiariscono che "anche le circostanze ritenute aggravanti che accedono ad una condotta inadempiente debbono formare oggetto di rituale contestazione, non essendo altrimenti possibile per il datore di lavoro porle in alcun modo a fondamento del recesso".


Appare invece condivisibile l'assunto secondo cui il giudice del gravame avrebbe errato, dopo aver riconosciuto l'idoneità del comportamento tenuto dall'intimata a integrare gli estremi dei giustificato motivo soggettivo di licenziamento, nel confermare la statuizione di primo grado in ordine all'illegittimità dei licenziamento sul rilievo che nessuna domanda di conversione era stata proposta dalla società ricorrente.


Gli Ermellini chiariscono che "la giusta causa e il giustificato motivo soggettivo di licenziamento costituiscono mere qualificazioni giuridiche di comportamenti ugualmente idonei a legittimare la cessazione del rapporto di lavoro, l'uno con effetto immediato e l'altro con preavviso"

Ciò significa che il giudice è abilitato "a convertire (rectius, valutare) un licenziamento per giusta causa in termini di licenziamento per giustificato motivo soggettivo senza che ciò comporti violazione dell'art. 112 c.p.c. (fermo restando il principio dell'immutabilità della contestazione e persistendo la volontà del datore di risolvere il rapporto)".


Ciò appare giustificato in quanto, "ove il datore di lavoro impugni globalmente la sentenza di primo grado che ha dichiarato l'illegittimità del licenziamento, nella sua domanda al giudice d'appello di dichiarare la legittimità della risoluzione del rapporto per giusta causa deve ritenersi compresa la minor domanda di dichiarare la risoluzione dello stesso rapporto per la sussistenza di giustificato motivo soggettivo".


La sentenza impugnata va cassata con rinvio per nuovo esame alla Corte d'appello per fare in modo che i giudici possano valutare nuovamente il licenziamento deciso dall'azienda ed eventualmente pronunciarsi anche d'ufficio sulla possibilità che il licenziamento in tronco venga qualificato come licenziamento con preavviso. 

Cass., sezione lavoro, sent. 21/2016

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