Il disturbo alla quiete pubblica è reato di pericolo presunto, desumibile da elementi probatori diversi dalla consulenza tecnica

di Marina Crisafi - Non serve la perizia per far scattare la condanna nei confronti del padrone se i testi confermano che il cane abbaia giorno e notte disturbando il riposo di chi abita nelle vicinanze. Sono queste le conclusioni cui è giunta la terza sezione penale della Cassazione (con la sentenza n. 48460/2015 qui sotto allegata), confermando la condanna di una donna alla contravvenzione di cui all'art. 659 c.p. e a 200 euro di ammenda, per non aver impedito lo strepitio del proprio pastore tedesco disturbando così le occupazioni e il riposo dei residenti.

La donna era stata ritenuta responsabile dal tribunale di Cagliari anche in seguito alle deposizioni rese dai testimoni che avevano confermato che l'animale era solito abbaiare di giorno e quasi tutte le notti, "con grande frequenza", sì da rendere impossibile il sonno di tutti gli abitanti nelle immediate adiacenze. Del resto, la stessa proprietaria del cane aveva ammesso che lo stesso abbaiasse, pur contestandone l'asserita frequenza.

Per gli Ermellini, ciò è sufficiente per affermare la responsabilità della padrona, in quanto la fattispecie de qua non implica, "attesa la natura di reato di pericolo presunto, la prova dell'effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente l'idoneità della condotta a disturbarne un numero indeterminato".

Per cui, hanno proseguito i giudici di legittimità, l'attitudine dei rumori a disturbare il riposo o le occupazioni delle persone "non va necessariamente accertata mediante perizia o consulenza tecnica - e - il giudice ben può fondare il proprio convincimento su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, sì che risulti oggettivamente superata la soglia della normale tollerabilità". Da qui l'inammissibilità del ricorso e la condanna della donna anche al pagamento delle spese.

Cassazione, sentenza n. 48460/2015

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