La Cassazione ricorda che per il lavoro domestico la legge (d.lgs. n. 151/01) non prevede alcun divieto

di Marina Crisafi - Non è affatto discriminatorio il licenziamento della colf perché incinta. A stabilirlo è la sezione lavoro della Cassazione, con la recente sentenza n. 17433/2015 (qui sotto allegata), rigettando il ricorso di una donna avverso la sentenza della Corte d'Appello di Roma che aveva respinto la domanda intesa ad ottenere la condanna dei suoi datori di lavoro, presso i quali aveva lavorato come domestica e baby sitter, al pagamento della retribuzione dalla data di licenziamento in poi. Licenziamento che, lamentava la donna, era stato discriminatorio, giacchè intimato "in tronco non appena aveva comunicato della gravidanza".

Ma la Cassazione è di diverso avviso.

Ai sensi dell'articolo 62, comma 1°, del d.lgs. n. 151/01, applicabile ratione temporis al rapporto per cui è causa, hanno affermato infatti da piazza Cavour, "alle lavoratrici addette ai servizi domestici e familiari si applicano le norme relative al congedo per maternità e le disposizioni di cui agli articoli 6, co. 3°, 16, 17, 22, commi 3° e 6°, ivi compreso il relativo trattamento economico e normativo, con esclusione - dunque - del divieto di licenziamento (dall'inizio della gestazione fino al compimento di un anno d'età del bambino)" previsto, invece, dall'articolo 54 dello stesso decreto.

Analoga, ricorda ancora la S.C., era anche la disciplina contenuta nella l. n. 1204/71.


Per cui, "non essendo per legge vietato licenziare, in ambito di lavoro domestico, la lavoratrice in stato di gravidanza - ha concluso la Corte rigettando il ricorso - detto recesso non può essere illecito o comunque discriminatorio".

Cassazione, sentenza n. 17433/2015

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