Senza 'riforme strutturali', che rafforzino il Quantitative Easing, nessuna ripresa economica dell'Eurozona (parola di Draghi!)
Avv. Prof. Stefano Lenghi - Da Sintra (Portogallo), ove il 22 maggio 2015 ha aperto e presieduto la seconda edizione del simposio BCE, dedicato quest'anno ad inflazione e disoccupazione ed al quale hanno partecipato banchieri centrali ed economisti di tutto il mondo, il presidente BCE, Mario Draghi, ha rilanciato il suo ennesimo appello ai Governi dell'Eurozona, perchè realizzino quanto prima quelle riforme strutturali, che sono chiamate a rafforzare gli effetti della politica monetaria intrapresa dalla BCE (e, in particolare, di quel suo strumento che è il "Quantitative Easing"), la cui attuazione è indispensabile condizione per un ritorno alla crescita di tutti i Paesi dell'area euro.

Ma, innanzitutto, rispolveriamo per il lettore il concetto di "Quantitative Easing".

Cos'è il Quantitative Easing

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Il Quantitative Easing (QE), la cui traduzione letterale è quella di "quantitativo facilitato", "alleggerimento quantitativo", "allentamento monetario", è uno strumento non convenzionale di politica monetaria mediante il quale una banca centrale acquista degli assets sul mercato secondario e, generalmente, titoli di stato, obbligazioni di istituzioni varie, titoli cartolarizzati (ABS) ed obbligazioni garantite (covered bond), al fine di immettere liquidità nel sistema economico.

In sostanza, la banca centrale crea nuovo denaro (che non viene stampato, ma creato in forma equivalente per via elettronica e, quindi, registrato sui bilanci dell'Istituto stesso) e lo utilizza per iniettare liquidità nel proprio sistema economico.

Domanda: ma perchè le banche centrali acquistano titoli di Stato? Risposta: perchè non esistono altri strumenti da poter acquistare in quantitativi adeguati. In teoria, per iniettare liquidità nel sistema si potrebbe anche ipotizzare che sia distribuito ad ogni famiglia un assegno, per cui l'economia, per effetto di un consistente aumento della domanda interna, potrebbe subito riavviarsi. Come può, però, intuirsi, a questa soluzione osterebbe una serie di ragioni politiche, per cui le banche centrali utilizzano gli strumenti a disposizione più confacenti allo scopo.

Si parla di strumento "non convenzionale", perchè convenzionalmente il controllo della base monetaria avviene con la vendita o acquisto di titoli governativi in sede di apposite aste, mentre, nel caso del Q.E., la banca centrale acquista, per un preannunziato e determinato importo di denaro, attività finanziarie dalle banche del sistema con operazioni di mercato aperto, con ovvii effetti positivi sulla struttura del bilancio degli istituti di credito.

Nel caso della BCE, la medesima non ha stampato nuova moneta creando banconote tangibili, ma ha come creato e crea dal nulla (perchè trattasi di valuta creata artificialmente, nominalmente), con gli stessi effetti, moneta elettronica (imputata in conto debito dei singoli Stati membri), impiegata nell'acquisto di titoli emessi dagli Stati dell'area euro e, precisamente, titoli di stato, obbligazioni di istituzioni europee, titoli cartolarizzati (ABS) ed obbligazioni garantite (covered bond), al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, almeno fino alla fine del mese di settembre 2016, cifra senz'altro consistente, se si considera che tutte le banconote euro in circolazione valgono 950 miliardi.

Attraverso il Public Sector Purchase Programme (Pspp), questo il nome tecnico del piano, la BCE comprera' 1.140 miliardi di euro di titoli, compresi bond sovrani con rendimento negativo, ma non al di sotto del tasso Bce sui depositi, che, al momento, e' pari a -0,20%. Inoltre, se una banca centrale nazionale non e' in grado di acquistare abbastanza titoli per soddisfare la propria dotazione, la BCE permettera' acquisti alternativi.

Questi acquisti sostitutivi dovrebbero, quindi, consentire all'Istituto centrale di raggiungere il surrichiamato obiettivo dei 60 miliardi di acquisti al mese. Tuttavia, la Bce non comprera' piu' del 25% di ogni emissione, per evitare di avere un ruolo predominante e, quindi, un diritto di veto nel caso di ristrutturazione di un debito sovrano, ed inoltre gli acquisti di titoli dello stesso Paese non potranno superare il 33% per salvaguardare il funzionamento del mercato e arginare i rischi che la stessa Bce diventi il principale creditore nell'Eurozona.

Tutti questi acquisti non verranno effettuati sul mercato primario, ossia partecipando ad aste di collocamento, ma solo sul mercato secondario, per non violare il divieto di finanziamento monetario. E la BCE acquistera' solo titoli che hanno una scadenza tra due e 30 anni e con un rating di 'investment grade' (con esclusione, quindi, della Grecia, che verrà tagliata fuori fino a quando non verra' ripristinata la deroga sui bond ellenici).

Obiettivo della manovra

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Finalità dell'intervento straordinario della BCE è, per usare una esaustiva espressione di sintesi, quella di rilanciare l'economia dell'eurozona attraverso una riduzione del costo del debito degli Stati e dei tassi d'interesse, promuovendo il rilancio di quel canale di finanziamento all'economia, che è il mercato del credito (sia nel rapporto banche-imprese che nel rapporto banche-famiglie), arrestando la deflazione, ovverosia il calo dei prezzi al consumo registrato in vari Paesi dell'area euro (poichè, come sappiamo, stante la situazione di depressione e deflazione, che caratterizza questi nostri tempi, i prezzi tendono a stare fermi o addirittura a diminuire) ed, anzi, dando impulso alla risalita del tasso di inflazione, per condurlo vicino al 2%.

All'"homo non oeconomicus" potrebbe sembrare che un costo della vita in discesa sia un fatto positivo, ma non è così. Se si innesca, infatti, la prospettiva che i prezzi scendano, l'economia non può certo funzionare bene, poichè le imprese non sono indotte ad impegnarsi più di tanto, in quanto temono di lavorare in perdita, vendendo ai prezzi di domani ciò che hanno prodotto ai costi di oggi; e le famiglie sono, a loro volta, indotte a differire gli acquisti, nella speranza di spendere meno domani. Si darebbe, così, impulso ad un circolo vizioso, che finirebbe per aggravare la recessione.

Diverso, ovviamente, sarebbe il discorso in regime di economia florida, in cui vi è il pericolo che i prezzi crescano troppo in fretta, per cui si giustificherebbe l'intervento dell'Istituto centrale, consistente nel progressivo aumento del tasso di interesse di riferimento, al fine di ritirare la troppa moneta in circolazione e contenere, così, le spinte inflazionistiche, vale a dire il progressivo incremento dei prezzi (in proposito si rammenterà che nel 1981 si intervenne per rendere autonome le banche centrali dai governi, proprio perchè l'esperienza aveva insegnato che le prime erano spinte dai secondi alla creazione di troppa moneta).

Effetti del Q.E.

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A prescindere dalle molteplici note ragioni per le quali una banca centrale può ricorrere al quantitative easing, i motivi che hanno indotto la BCE all'utilizzo dello strumento in questione possono così schematizzarsi:

Allentamento della stretta creditizia e rifinanziamento delle imprese

Iniettare liquidità nel sistema bancario, affinchè le banche, disponendo di risorse finanziarie da prestare alle imprese, allentino la stretta creditizia nei confronti delle stesse ed inizino a rifinanziare l'economia dei processi produttivi.

I tassi di interesse, già bassi (tasso di riferimento BCE, ex tasso ufficiale di sconto, dal 04 settembre 2014: 0,05%, minimo storico), resteranno ancora a lungo a livelli minimi e le imprese si affretteranno a chiedere finanziamenti per il rilancio degli investimenti. Con una prospettiva di prezzi che tornano a crescere e costo del denaro basso, le imprese saranno maggiormente motivate a produrre e, quindi, a realizzare quegli investimenti, che costituiscono il presupposto fondamentale per un consistente incremento dei livelli occupazionali. A ciò si aggiunga che il regime di tassi d'interesse ai minimi unitamente all'attesa di una ripresa dell'inflazione ha già contribuito a far scendere e potrà contribuire a mantenere basso il cambio dell'euro, favorendo, così, le esportazioni.

Da notare soltanto che iniettare liquidità nel sistema bancario non significa fornirla automaticamente al sistema delle imprese e delle famiglie, in quanto le banche potrebbero scegliere di non utilizzarla per la concessione di crediti, ma, ad es., di depositarla presso la banca centrale stessa, beneficiando di un tasso di interesse che, anche se assai poco remunerativo, sarebbe da considerarsi privo di rischi.

Poiché, pertanto, non sono stati prescritti alle banche, cui le risorse finanziarie affluiscono, vincoli di utilizzarle per la concessione del credito alle imprese e alle famiglie, riteniamo che andrebbe introdotta, a livello europeo, una normativa che riconosca alla BCE il potere di imporre agli istituti di credito l'utilizzo, in tutto o in parte, della liquidità ricevuta per finalità di finanziamento dell'economia delle imprese e delle famiglie, nonchè il potere di monitorare l'utilizzo stesso, con il riconoscimento alla stessa BCE di adeguati poteri di intervento e sanzionatori, per il caso di inadempienze, ritardi o comportamenti difformi da parte degli istituti di credito;

Allentamento stretta creditizia e rilancio della concessione del credito alle famiglie

Iniettare liquidità nel sistema bancario, affinchè le banche, disponendo di risorse finanziarie da prestare alle famiglie, allentino la stretta creditizia nei confronti delle stesse e si determinino alla concessione di mutui alle medesime, soprattutto per l'acquisto della casa, ma anche per l'acquisto di altri beni indispensabili alla quotidianità familiare (c.d. credito al consumo). Anche qui vale, naturalmente, lo stesso discorso predicato nell'ultimo punto del precedente paragrafo 1.3.1);

- Combattere la deflazione attraverso un'azione di impulso all'inflazione, cioè all'incremento dei prezzi, onde evitare che la caduta degli stessi conduca i prezzi di vendita sotto il costo variabile unitario di produzione, causando perdite e fallimenti di imprese;

- Ridurre i costi di indebitamento dello Stato.

Essendo l'intervento della BCE diretto all'acquisto di titoli di stato, esso dovrebbe provocare un incremento della domanda di detti titoli e, quindi, un aumento del prezzo dei titoli stessi, con la conseguenza di una riduzione del loro rendimento. Se il rendimento dei titoli pubblici è agganciato a quello dei tassi d'interesse bancari (come negli USA per i Treasury bond a lunga scadenza), ciò provocherà, naturalmente, un abbassamento anche di questi ultimi.

2) Non sarebbe stato più opportuno, per la BCE, evitare il Q.E. e stampare moneta da iniettare direttamente nelle iniziative produttive di occupazione e reddito?

Da parte di alcuni illustri banchieri ed economisti ci si è chiesto se la BCE, anzichè ricorrere allo strumento non convenzionale di politica monetaria del Q.E. (che inevitabilmente finisce per gonfiare i già elevati livelli di debito dei governi dell'Eurozona), non avrebbe più opportunamente potuto stampare denaro fresco da iniettare, attraverso istituzioni creditizie comunitarie, ad imprese ed enti per finanziare la realizzazione di investimenti produttivi e di grandi progetti di costruzione di infrastrutture.

Una delle voci più autorevoli, che si è in tal senso levata, è senza dubbio quella di Jacek Rostowski, ministro dell'economia in Polonia negli anni dal 2007 al 2013 e protagonista della rinascita economica polacca, ad avviso del quale la BCE, invece che ricorrere all'uso degli strumenti non convenzionali azionati, avrebbe più opportunamente potuto usare il suo enorme bilancio per iniettare direttamente nell'economia produttiva dei singoli Paesi denaro slegato dal debito nell'economia, secondo quantità e nei modi che essa stessa avrebbe potuto, in regime di piena autonomia ed indipendenza, decidere.

Secondo il piano di Rostowski, la BCE avrebbe, così, potuto fornire soldi freschi alle agenzie comunitarie europee, da erogare direttamente per finanziare la realizzazione di investimenti produttivi con conseguente creazione di nuovi posti di lavoro, nonché, ad es., attraverso la Banca Europea degli Investimenti (BEI), di progetti per la creazione di infrastrutture o per l'approvvigionamento energetico, senza per questo provocare un incremento dei debiti governativi.

Il piano di J. Rostowski, che, in sè e per sè, potrebbe anche contenere degli elementi di validità come ipotesi di intervento di finanziamento dell'economia produttiva senza dilatare il debito pubblico dei singoli Paesi, non tiene conto, però, del fatto che la creazione di nuova moneta, anche se stampata senza gonfiare i debiti dei singoli Paesi membri, rischierebbe, comunque, come -ci sembra fondatamente- sostenuto anche da Jean-Claude Trichet, ex presidente BCE, e da Jurgen Stark, ex chief economist presso la BCE dal 2006 al 2011, di determinare, per forza di cose, il progressivo incremento dell'inflazione e finirebbe, così, per minare la credibilità della stessa BCE, che, come sappiamo, è chiamata, per suo statuto, a mantenere la stabilità dei prezzi all'interno di tutta l'area euro.

Vi è, pertanto, da ritenere che la scelta del Q.E. operata da Draghi sia, fra le opzioni possibili, quella più rispondente all?obiettivo di far uscire i singoli Paesi dalla fase di dilagante depressione attraverso un progressivo ma lieve aumento dell'inflazione, lasciando ad ogni singolo Paese il compito di creare, mediante gli irrinunciabili interventi normativi, quel quadro di condizioni che consenta ad imprese e famiglie di dare un continuo e sempre maggiore impulso all'espansione del ciclo economico, ma accentrando nelle mani dell'Europa i poteri di coordinamento, di controllo e di intervento sull'attuazione delle riforme strutturali.

3) L'appello di Draghi ai Governi: solo da "riforme strutturali", che accompagnino la politica monetaria, un aumento del potenziale di crescita economica dell'Eurozona.

Riprendendo il discorso iniziato in apertura di questo nostro intervento, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, nel suo discorso al simposio BCE di quest'anno, ha reiterato il suo insistente appello ai Governi dei Paesi dell'Eurozona, perchè, ad adiuvandum della politica monetaria intrapresa con il Quantitative Easing ed accompagnando l'azione della medesima, realizzino, "il più presto possibile", quelle riforme strutturali, dalle quali soltanto può derivare un aumento del potenziale di crescita delle economie dell'area euro, riforme strutturali che, è stato sottolineato, "devono entrare nel DNA dell'Eurozona", così come nel DNA dell'Eurozona deve entrare il punto-luce di un'economia all'insegna della flessibilità.

Senza tali riforme il potenziale di crescita dei Paesi dell'Unione monetaria rimarrebbe inferiore all'1%, un livello nettamente al di sotto dei livelli antecedenti alla crisi.

Ha sottolineato il presidente della BCE che «in una unione monetaria non ci si può permettere di avere profonde e crescenti divergenze strutturali tra i Paesi membri, perché queste tendono a diventare esplosive e possono arrivare a minacciare l'esistenza stessa della moneta comune»,

L'inizio della ripresa, che ha ora posto l'Eurozona "nelle migliori condizioni economiche degli ultimi sette anni" e la politica monetaria accomodante della BCE, ha proseguito Draghi, non possono servire come scusa per rinviare le decisioni, ma sono anzi un'opportunità importante per attuare le riforme, che a loro volta rafforzano gli effetti della politica monetaria. Ciò perchè "la politica monetaria si sta facendo strada nell'economia" ed ha, diremmo, il ruolo di indirizzarla verso lo sviluppo del suo potenziale di crescita, il quale, però, può elevarsi e massimizzarsi soltanto attraverso quegli interventi di riforma strutturale, che, forti delle condizioni di base create dalla politica monetaria, consentano ai vari attori del sistema economico di potersi esprimere all'insegna della massima flessibilità ed efficienza.

Se è vero, infatti, che le prospettive di crescita dell'area euro non sono mai state così positive negli ultimi sette anni, è altrettanto vero che il potenziale di crescita dell'Eurozona è sceso, dopo la crisi, sotto l'1% contro il 2% degli USA.

La realizzazione delle riforme strutturali darebbe un forte impulso alla ripresa economica (che è una ripresa ciclica) e potrebbe condurre, nei prossimi dieci anni, ad un miglioramento medio dell'11% del reddito pro-capite, secondo studi dell'Ocse richiamati dallo stesso presidente della BCE, il quale ha osservato che, in alcuni casi, i benefici rivenienti dalle riforme già realizzate o promosse in alcuni Paesi, come quella del mercato del lavoro e dei prodotti, realizzata in Spagna ed avviata in Italia, sono già misurabili, l'inflazione sembra già rispondere meglio alle condizioni del ciclo economico e risalire rispetto ai minimi e la crescita registra segni di (anche se timido e, per ora, insufficiente) avvio, segno manifesto, questo, che, laddove le riforme sono state realizzate o sono in avanzato corso di sviluppo, l'intervento di politica monetaria del Q.E., coniugato con quello dell'azione riformatrice del singolo Paese, fanno registrare nel Paese stesso un impulso alla crescita, mentre del tutto insufficiente, ai fini di tale impulso alla crescita, si rivela la sola politica monetaria BCE. Ma, se è vero che, da parte di Mario Draghi, viene espresso apprezzamento per la riforma del mercato del lavoro avviata dall'Italia e portata a compimento dalla Spagna, nonchè per la flessibilità che la Germania ha saputo introdurre nel mercato del lavoro, è altrettanto vero che, ad es., per quanto concerne il sistema-Italia, egli sottolinea la necessita di una radicale riforma fiscale e della pubblica amministrazione; ricorda che, per quanto concerne le classifiche dei Paesi che si preoccupano di riconoscere condizioni di incentivazione al "fare impresa", siamo il fanalino di coda; invita ad aprire alle liberalizzazioni; si sofferma sul disegno di legge sulla concorrenza.

Il presidente della BCE ha anche ammonito che l'incapacità di realizzare le riforme strutturali o la scelta di rinviarle, finirebbe per intrappolare le economie dell'Eurozona in una situazione in cui la disoccupazione strutturale potrebbe rimanere permanentemente sopra il 10%, così come elevata potrebbe rimanere quella giovanile, con effetti laceranti per lo sviluppo del Sistema.

D'altra parte, tra il 2008 ed il 2014 l'Italia ha visto raddoppiare il numero di disoccupati, passati da poco meno di 1,7 milioni a 3,2 milioni. Il tasso di disoccupazione è balzato al 12,7%, mentre, tra gli under 25, ha toccato il 42,7%. In base ai dati ISTAT forniti il 03 giugno 2015, il tasso di disoccupazione, soprattutto per effetto dei provvedimenti del Jobs Act, sarebbe sceso, nell'aprile 2015, al 12,4% (-0,2% rispetto al marzo 2015), mentre il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 15 ed i 24 anni sarebbe sceso, nell'aprile 2015, al 40,9% (-1,6% rispetto al marzo 2015). La situazione disoccupazionale, anche se ha registrato un timido inizio di miglioramento, resta, pertanto, assolutamente devastante ed il Jobs Act, come giustamente è stato osservato, anche se ha il potenziale per migliorare significativamente il mercato del lavoro, non è certo, da solo, idoneo a ricondurre la disoccupazione entro quelli che sono i limiti coerenti con una economia in fase di rilevante crescita.

Così, secondo le stime dell'OCSE, la crescita del PIL è prevista aggirarsi su un tasso dello 0,6% per l'anno 2015 e dell'1,5% per l'anno 2016. Occorrono proprio, quindi, interventi strutturali di riforma a 360 gradi per far ripartire la macchina economica alla massima espressione.

Anche il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, nel suo intervento del 02 giugno 2015 al festival dell'Economia di Trento, ha sottolineato la necessità di agire su tutti i fattori che frenano la ripresa, di limare gli squilibri tra i Paesi in avanzo e quelli in disavanzo, di garantire una distribuzione del reddito più equa. Ed ha, poi, aggiunto che l'Italia deve scrollarsi dalle spalle il macigno del debito pubblico. Un allarme che viene rilanciato anche dal FMI, secondo cui il debito pubblico ereditato con la crisi è un "peso morto sull'economia, riducendo il potenziale di investimenti e le prospettive di crescita".

E tutto ciò postula, come richiesto dal presidente della BCE, riforme strutturali (divenute ormai indilazionabili), la cui realizzazione sia coordinata da un'unica, chiamiamola così, euroauthority, che garantisca, anche attraverso poteri d'intervento, un'armonica concomitante eliminazione degli squilibri tra gli Stati membri ed un'armonica equilibrata crescita di ogni Paese.

In merito alla necessità, espressa da Mario Draghi, che i singoli Paesi dell'Eurozona, per rafforzare la politica monetaria, accompagnino la stessa con la realizzazione delle riforme strutturali, riteniamo che il pensiero della massima autorità economica europea si fondi su quello che può considerarsi un punto-luce della politica economica. Non vi è dubbio, infatti, che, in regime di tassi bassi, come accade in Europa e come avvenne in Giappone, lo stimolo del Q.E. necessiti di azioni di riforma aggiuntive da parte dei singoli Paesi intese a creare le condizioni per un progressivo aumento di quella domanda globale per investimenti e consumi, dalla quale soltanto può derivare uno sviluppo della crescita economica. Ciò, in quanto, come egregiamente è stato sostenuto anche dagli analisti della Bridgewater Associates, quando i tassi sono bassi, "gli investitori sono meno disposti ad acquistare le obbligazioni governative, a meno che non ricevano in cambio un indennizzo maggiore sotto forma di tassi di interesse: il differenziale tra tassi a lungo termine e tassi a breve termine è, dunque, un fattore chiave per il successo dello stimolo". In buona sostanza, solo quando i tassi di interesse sono relativamente alti, anche il solo stimolo della politica monetaria può produrre effetti significativi.

Il problema nasce, pertanto, in regime di tassi bassi, poiché, in tale contesto, il solo stimolo della politica monetaria e, in particolare, del Q.E. è da considerarsi insufficiente ai fini del rilancio della ripresa economica, ciò che spiega perchè la crescita europea stia ancora rallentando. Occorre un'azione di riforme strutturali, tanto più profonde e radicali, quanto maggiore è, nel singolo Paese, la situazione di crisi e di depressione.

L'unico segnale positivo è rappresentato dalla lieve ripresa dei prezzi, frutto della politica antideflazione della BCE (è tornata in terreno positivo la stima dell'inflazione su base annuale nell'Eurozona: +0,3% a maggio 2015), ma, senza il completamento delle riforme strutturali, soprattutto in quei Paesi in cui maggiore è la situazione di crisi e di depressione, non si può ipotizzare alcuna spinta a quella crescita economica che può scaturire soltanto dalla realizzazione a tappeto di investimenti produttivi, unica fonte di incremento dell'occupazione, e da un aumento della generale domanda per consumi.

E così ci sembra di essere giunti al momento più importante di questo nostro intervento, quello di soffermarci sul tema delle "riforme strutturali", alla cui realizzazione il presidente BCE ha sollecitato e sollecita i Governi dell'Eurozona quale condizione imprescindibile, nel contesto dell'attuale situazione, per attivare la crescita nei Paesi dell'area euro.

Si è, infatti, sinora parlato, in generale, del richiamo di Mario Draghi alla necessità di tali "riforme", ma nulla si è predicato in merito al contenuto delle riforme stesse, per cui non possiamo certo concludere queste nostre considerazioni senza aver intrattenuto il lettore, anche se assai succintamente, su tale argomento, soprattutto con riferimento alla riforma fiscale, alla riforma del lavoro ed al ruolo della contrattazione collettiva aziendale, tre temi che vorremmo, qui, considerare in relazione alla situazione del sistema-Italia e richiamati con enfasi dallo stesso Draghi.

La riforma fiscale

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Il tema della riforma fiscale è senz'altro il più scottante e quello che esigerebbe, da parte del governo, un intervento, in tempi brevi, di riforma veramente radicale e strutturale.

La pressione fiscale globale ha, infatti, raggiunto livelli tali da soffocare imprese e famiglie nella possibilità di soddisfare normalmente le loro esigenze ed è assolutamente insostenibile (secondo i calcoli dell'Ufficio Studi Confcommercio si può parlare di una pressione fiscale pari al 53,2% del PIL, al netto dell'economia sommersa, che si aggira sul 17,3% del PIL, una percentuale che supera quella di tutti i maggiori Paesi nel mondo, superiore, quindi, anche a quella di Paesi che hanno notoriamente una fortissima pressione fiscale, come Danimarca (51,3%) e Francia (49,5%).

Siamo tutti consapevoli che la soluzione del problema della disoccupazione, ormai strutturale, non può che derivare da un rilancio a tutto campo degli investimenti produttivi. Occorre far sì che l'Italia venga posta nelle condizioni di divenire un Paese in grado di attirare in misura consistente gli investimenti. Bene!

Ma come può pensarsi che gli imprenditori (italiani e stranieri) siano incentivati ad effettuare investimenti produttivi in Italia, con un prelievo forzoso di imposizione tributaria che, unitamente al peso di tutto il restante sistema di vincoli giuridici, economici e burocratici alla produttività, compromette, nella maggior parte dei casi, ogni possibilità, per l'impresa, di gestire la propria organizzazione secondo criteri di economicità e di efficienza?

Mentre non si può che rivolgere un plauso al Governo per la frenetica attività riformatrice a cui in così poco tempo ha saputo dare impulso (ciò di cui nessuno, prima d'ora, si era mostrato capace, giova riconoscerlo!), soprattutto con la riforma avviata mediante i primi interventi del Jobs Act (di cui possono toccarsi con mano, anche se timidamente, i primi effetti favorevoli sull'aumento dei livelli occupazionali, anche se ancora troppo inconsistente), non si può dire altrettanto per quanto concerne la riforma fiscale che il Governo si accinge a varare, importante come tentativo di incidere positivamente nei rapporti tra cittadino e Fisco e sul piano di un primo alleggerimento di oneri. Ma trattasi pur sempre di interventi episodici, e non, come sapientemente richiesto dal presidente della BCE, di tipo strutturale!

Occorre, come da più parti sollecitato, una riforma che entri nel "cuore" della materia, occorre che si ponga finalmente mano ad un processo di revisione organica e di assoluta semplificazione di tutto il sistema di imposizione tributaria sui redditi (e sulla proprietà immobiliare!), a cominciare, in materia di imposizione sui redditi, dall'istituzione di un'aliquota unica, sui redditi delle persone fisiche e sui profitti delle imprese, pari al 15% o, comunque, non superiore al 20% (c.d. flax tax), con meccanismi perequativi (principalmente la "non-tax area", ma anche deduzioni e detrazioni), che garantiscano, pur nell'ambito di un sistema fiscale non progressivo, prelievi complessivamente rispettosi del criterio di progressività, di cui all'art.53, secondo comma, della Costituzione e con la previsione di comminatoria di sanzioni pesantissime per chi dovesse rendersi evasore anche di fronte ad alleggerimenti impositivi di queste proporzioni.

E' sin troppo chiaro che un intervento di questo tipo, se unito ad un quadro normativo che consentisse una gestione dei rapporti di lavoro coerente con le esigenze tecnico-organizzativo-produttive dell'impresa e ad una azione di deburocratizzazione (che eliminasse tutti quei vincoli che letteralmente ingessano lo svolgimento di ogni attività da parte delle imprese), rappresenterebbe un ragguardevole incentivo alla realizzazione in tutto il Paese di investimenti produttivi, dai quali scaturirebbe un consistente incremento dei livelli occupazionali, con un conseguente considerevole immediato aumento della domanda globale (cioè, della domanda delle imprese per investimenti produttivi, nonchè della domanda delle famiglie per consumi), ciò che rimetterebbe in moto, sul piano globale, tutto l'apparato economico. E ciò senza che venga addotta la scusante (assolutamente inesistente), secondo cui un tale sistema provocherebbe insufficienti entrate per lo Stato, perchè sappiamo benissimo, e qui docet l'esperienza vissuta da altri Paesi, che, con l'introduzione di un sistema tributario del tipo di quello prospettato, si assisterebbe al puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie da parte di tutti i consociati, non foss'altro che per il fatto che lo Stato opererebbe prelievi di minima entità e, quindi, di massima tollerabilità in rapporto alla reale capacità di reddito di ciascuno e non foss'altro che per il fatto della comminatoria di sanzioni, che avrebbero una intensissima efficacia dissuasiva su chi nutrisse propositi di evasione, nonostante la vantaggiosità del sistema….

Il discorso, veramente primario, meriterebbe di poter entrare in una molteplicità di dettagli, anche tecnici, ma non è, ovviamente, questa la sede per condurre approfondimenti in merito. Ci basti lanciare, qui, il messaggio-flash su quello che riteniamo essere il punto-luce di partenza espressione di una filosofia di semplificazione ed alleggerimento, che dovrebbe ispirare l'intervento di riforma del sistema di imposizione tributaria.

La riforma del mercato del lavoro

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La già avviata riforma del Jobs Act in Italia.

Il Presidente della BCE ha osservato che, in quei Paesi che hanno completato le riforme del mercato del lavoro, come la Spagna, o che le hanno avviate, come l'Italia, i benefici delle riforme stesse sono già, anche se in misura minima, tangibili e la stessa inflazione ha mostrato di rispondere meglio alle condizioni del ciclo economico, crescendo e dando impulso allo sviluppo del ciclo stesso e rendendo l'economia più resistente agli shocks esterni.

Mario Draghi, sul piano delle riforme del mercato del lavoro, ha anche ricordato l'esempio della Germania, ove, per effetto della flessibilità (che si è concentrata soprattutto sui salari e sulle ore lavorate, evitando così un impatto sull'occupazione), la disoccupazione staziona sotto il 5% contro una media europea sopra il livello dell?11%.

Per quanto concerne l'Italia, bisogna dare atto che, con le prime attuazioni normative del Jobs Act (D.L.20 marzo 2014 n.34 convertito, con modificazioni, in legge con legge 16 maggio 2014 n.78 in materia di riforma della disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato, D.Lgs.04 marzo 2015 n.23 in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti e D.Lgs.04 marzo 2015 n.22 sul riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, cui deve, soprattutto, aggiungersi lo Schema di D.Lgs., presentato il 20 febbraio 2015, recante il testo organico sul riordino delle tipologie contrattuali e la revisione della disciplina delle mansioni) il Governo, con un'infaticabile azione che non ha riscontro in nessun altro precedente Governo, sta cercando di restituire all'impresa quel margine di manovra, quello spatium decidendi, di cui essa aveva assolutamente bisogno per poter gestire i rapporti di lavoro in modo coerente con le esigenze del suo apparato organizzativo e tecnico-produttivo, nonchè di un mercato ormai globalizzato. In particolare, mentre, da un lato, si è proceduto alla liberalizzazione dell'utilizzo del contratto a termine (strumento che, nell'ambito di una disciplina ormai normalizzata, potrà essere, comunque, fonte di reiterata occupazione), dall'altro, per limitarci a richiamare soltanto alcuni degli aspetti di maggiore momento, si è incentivato il ricorso alla stipulazione di contratti di lavoro a tempo indeterminato, mediante una normazione che, oltre a riconoscere ai datori consistenti agevolazioni di ordine contributivo, consente loro quella c.d. flessibilità in uscita, la cui assenza ha costituito, nelle precedenti fasi di evoluzione del diritto del lavoro permeate di ideologia garantista, uno degli elementi di maggiore dissuasione dall'assunzione di risorse umane in pianta stabile. A ciò si aggiunga, poi, la proposta di riforma del contratto di somministrazione di lavoro (contenuta nello Schema di D.Lgs. n.158) con cui il Governo, attraverso un intervento di liberalizzazione della somministrazione a tempo determinato e del c.d. staff leasing, ha messo a punto uno strumento che, raccordando ed integrando, in un'ottica di rete e di codatorialità, mercato interno e mercato esterno all'azienda, potrà apportare, oltre a vantaggi per le imprese e per i lavoratori, un significativo impulso alla creazione di nuova stabile occupazione, come è emerso dalle recentissime elaborazioni di Assolavoro Datalab, riportate anche nel recente articolo su "La Stampa" del 25 maggio 2015, dal titolo "L'interinale non teme le tutele crescenti" (si legga, sulla riforma del contratto di somministrazione di lavoro contenuta nello schema di D.Lgs., l'articolo di Stefano Lenghi, "Jobs Act e contratto di somministrazione di lavoro: un nuovo modello normativo per la creazione di nuova stabile occupazione", pubblicato sul Portale studiocataldi.it il 04 maggio 2015). Con lo stesso Schema di D.Lgs. il Governo ha inteso provvedere al riordino e alla razionalizzazione delle tipologie contrattuali in materia di lavoro, nonchè a ridisegnare il nuovo assetto normativo in materia di disciplina delle mansioni.

Ora, il Governo è più che mai impegnato nel proseguire la intrapresa grande opera di riforma a 360 gradi della vita dello Stato, come risulta dagli sforzi che sta ponendo in essere per la messa a punto di alcuni fra i restanti provvedimenti riconducibili nella filosofia del Jobs Act, nonché di tutti gli altri provvedimenti che fanno parte del suo progetto di rilancio della crescita del Paese ad ogni livello.

Molto di ciò che è stato sinora attuato non è immune da critiche e dovrebbe essere emendato e di gran lunga migliorato, ma, e questo è in fondo il messaggio di Mario Draghi, i cambiamenti che il Governo ha sinora attivato, forti anche delle condizioni poste dalla assai accomodante politica monetaria BCE, hanno posto le basi, ed i risultati sono già visibili, per un primo, anche se timido, impulso alla crescita economica, impulso, comunque, ancora del tutto insufficiente e, quindi, insuscettibile di potersi incrementare, se la grande, appena avviata, opera di riforma in ogni area della vita del Paese non proseguirà a pieno ritmo sino al suo completamento.

3.2.2) Il ruolo della contrattazione collettiva aziendale (detta anche "di prossimità") quale co-attore nella gestione dell'impresa e nella soluzione delle situazioni di crisi.

Veramente pregevole ci è sembrato il richiamo del Presidente della BCE, in un simposio di tale spessore internazionale, al ruolo della contrattazione collettiva aziendale (rispetto a quello della contrattazione collettiva nazionale), essendosi rivelata capace di contenere, nel corso della crisi, la riduzione dei posti di lavoro e di frenare, quindi, i licenziamenti, e ciò grazie ad una maggiore flessibilità delle retribuzioni, ma, vorremmo aggiungere, non solo per tale ragione.

Alla particolare sensibilità giuslavoristica di chi scrive non poteva certo sfuggire la portata di un richiamo, che, per l'autorevolezza della fonte da cui proviene e per il ruolo che è chiamato ad assolvere nel concerto europeo, suona come volontà di affermare un punto-luce, che vuol essere anche un criterio-guida per i legislatori del lavoro e per il Sindacato, affinchè operino una sempre maggiore devoluzione di potestà normativa alla contrattazione collettiva aziendale (sia pur nel rispetto di principi e condizioni espressi dalla contrattazione collettiva nazionale), essendo quella che si rivela maggiormente in grado di interpretare le esigenze dell'impresa e dei lavoratori non solo sul piano aziendale, ma anche a livello di unità produttiva locale, nonchè di tener conto delle condizioni socio-economiche (e non solo) in cui l'azienda, o anche soltanto una sua articolazione organizzativa, è chiamata a muoversi.

Crediamo che la modernità di un sindacato e la sua capacità di tener testa alle sfide che il mercato oggi impone, debba giocarsi anche su questo fronte. Le nuove sfide, poste ed imposte dal mercato globale e dalla rivoluzione tecnologico-informatica, che hanno ormai sepolto la vecchia concezione fordista dell'impresa, postulano un sindacato non più ancorato ai vecchi ideologismi e schemi della lotta di classe, non più chiuso su posizioni ancora di stampo vetero-massimalistico e trincerato sulla difesa di ormai superati preconcetti garantistici (che garantistici non sono, in quanto non più coerenti con le nuove condizioni per la sopravvivenza e lo sviluppo dell'impresa), ma aperto ad un mondo ormai in continuo cambiamento, proteso ad individuare, di concerto con la governance aziendale, il miglior modo di comporre quegli interessi (non sempre necessariamente contrapposti e, quindi, non sempre in conflitto), che consentano all'azienda quelle condizioni di prosperità, che costituiscono il presupposto per la stessa pregnante tutela della famiglia lavorativa aziendale. Senza un salto di qualità di questo tipo, che oggi vuol dire anche riconoscere il ruolo determinante della contrattazione aziendale, e riservarle tutto il necessario margine di manovra, non vi può essere spazio, per il sindacato, per un ruolo di attore, anch'esso, di quella crescita dell'azienda che è, nel contempo, crescita del suo capitale umano.

Nel contesto di questo discorso, come si può ben comprendere, la contrattazione collettiva aziendale è chiamata a svolgere un ruolo centrale nel nuovo sistema di relazioni industriali, proprio, diremmo, come elemento destinato ad incidere positivamente sulla produttività ed efficienza dell'organismo aziendale e non possiamo che compiacerci che un appello all'importanza di tale ruolo sia stato rivolto proprio dalla massima autorità economica europea.

Il terreno è, comunque, ormai arato e pronto, perchè la semina possa iniziare a germogliare, come emerge dal ruolo, dai poteri e dall'efficacia che alla contrattazione aziendale sono stati progressivamente riconosciuti dal diritto positivo, dal pensiero giurisprudenziale e dallo stesso sistema di relazioni industriali e su cui vorremmo richiamare qui di seguito l'attenzione del lettore.

Sin dagli ormai lontanissimi anni '70, infatti, l'orientamento giurisprudenziale, attraverso un'elaborazione che ha condotto ad un orientamento oggi pressoché univoco, si è pronunziato nel senso secondo cui, nei rapporti tra i vari tipi di contrattazione collettiva da applicare ad una determinata azienda (e, in particolare, nei rapporti tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale), nel caso in cui una o più clausole della contrattazione aziendale siano in contrasto con corrispondenti clausole della contrattazione nazionale e contengano modificazioni in pejus rispetto a quest'ultima, prevale la contrattazione aziendale, se il giudice appura che le rappresentanze sindacali, in considerazione delle specifiche esigenze aziendali e delle istanze espresse dalla parte-lavoratori, hanno preferito rinunziare, in relazione ad alcuni specifici aspetti, ad applicare le più favorevoli condizioni previste dalla contrattazione nazionale, in nome di un assetto normativo che, complessivamente considerato, si appalesa apportatore di una situazione globalmente e decisamente più vantaggiosa per la famiglia lavorativa aziendale.

D'altra parte, il magistero giurisprudenziale ha da sempre affermato che il principio della gerarchia delle fonti ed il criterio del favor praestatoris (alla luce dei quali la fonte sovraordinata prevale su quella sotto ordinata, salvo che quest'ultima contenga disposizioni più favorevoli al lavoratore) si applicano soltanto nei rapporti tra fonti eterogenee e non nei rapporti tra fonti dello stesso tipo, nei quali ultimi -noi aggiungiamo- stante la evidente funzione che è chiamata a svolgere la contrattazione di dimensione più circoscritta, è giusto che debba essere questa a prevalere, siccome quella che meglio si attaglia, anche rispetto alla contrattazione nazionale, che è necessariamente di carattere generale e di quadro, ad interpretare le specifiche esigenze delle parti che essa rappresenta.

E proprio, comunque, con l'art.19 della legge 20 maggio 1970 n.300 (Statuto dei Lavoratori): attraverso l'istituzione delle rappresentanze sindacali aziendali, fa ingresso il sindacato in azienda e nasce, come sappiamo, il sistema di relazioni industriali a livello aziendale ed il diritto sindacale aziendale.

Le rappresentanze sindacali aziendali (RSA), infatti, per legge interlocutore ufficiale, per legge controparte sindacale istituzionale del datore in azienda, possono stipulare accordi sindacali aziendali efficaci nei confronti della generalità dei lavoratori dell'Azienda (anche di quelli non iscritti o aderenti al sindacato), perché le RSA hanno la rappresentanza giuridica di tutti i lavoratori dell'Azienda in ordine alla gestione dei rapporti collettivi di lavoro (ovverosia per tutto ciò che inerisce alla materia sindacale, riguardante i lavoratori non in quanto titolari di un rapporto individuale di lavoro, bensì in quanto sindacalmente associati) e, in base alle disposizioni di cui agli articoli da 20 a 32 S.L., hanno il diritto di organizzare, promuovere e svolgere l'attività sindacale all'interno dell'azienda.

A ciò si aggiunga che, già a partire dalla legislazione del lavoro precedente al Jobs Act (citiamo, ad es., l'art.5, comma 4-bis, del D.Lgs.06 settembre 2001 n.368 in materia di contratto a tempo determinato), è dato rinvenire, nella disciplina giuridica di determinati aspetti od istituti, clausole che fanno salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale e conferiscono, quindi, alla contrattazione collettiva anche territoriale ed aziendale la titolarità di una potestà normativa addirittura in senso derogatorio alla legge stessa. Ed identico fenomeno si può constatare anche nella attuale produzione normativa, ciò che evidenzia tutta l'importanza del ruolo che il legislatore intende riconoscere al sistema di relazioni industriali a livello aziendale, quale strumento per la migliore composizione degli interessi, di cui azienda e lavoratori sono portatori, anche mediante azioni in deroga alla contrattazione nazionale ed alla stessa legge.

Come non rammentare, poi, il testo dell'art.8 (Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità) del D.L.13 agosto 2011 n.138 coordinato con la legge di conversione 14 settembre 2011 n.148 (c.d. manovra bis), titolo III, Misure a sostegno dell'occupazione, alla luce del quale "i contratti collettivi di lavoro aziendali o territoriali possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti ed all'avvio di nuove attività e concernenti le materie indicate nel comma 2, anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate nello stesso comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro". Tale disposizione, la cui efficacia è, peraltro, già giunta a scadenza (in quanto si applicava ai contratti collettivi aziendali approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011), riconosceva alla contrattazione aziendale o territoriale il potere di adottare, nelle materie indicate, addirittura assetti normativi anche in deroga a disposizioni di legge (al maturare del clima, che ha condotto alla formulazione della norma in questione, non è certo rimasto estraneo Sergio Marchionne, l'amministratore delegato della FIAT spa, oggi Fiat Chrysler Automobiles-FCA, che ha avuto la lungimiranza di comprendere i benefici effetti che avrebbero potuto scaturire da una responsabile ed illuminata contrattazione di prossimità e che della filosofia del decentramento della contrattazione (salariale e non) è stato un po' l'alfiere).

Da ultimo, non possiamo non ricordare il Testo Unico sulla Rappresentanza contenuto nell'accordo interconfederale stipulato tra Confindustria-CGIL, CISL, UIL del 10 gennaio 2014, la cui parte terza tratta della titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale di categoria e aziendale.

Alla luce della terza parte di detto T.U. si desume che:

Efficacia ed esigibilità dei contratti collettivi aziendali: i contratti collettivi aziendali per le parti economiche e normative sono efficaci ed esigibili per tutto il personale in forza e vincolano tutte le associazioni sindacali, espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie dell'Accordo Interconfederale del 28 giugno 2011, del Protocollo d'intesa del 31 maggio 2013 e dell'Accordo stesso 10 gennaio 2014 o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, operanti all'interno dell'azienda, se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie elette secondo le regole interconfederali convenute con l'Accordo del 2014.

Rapporti tra contratto collettivo aziendale e ccnl: i contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati ad assicurare la capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi. I contratti collettivi aziendali possono, pertanto, definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti collettivi nazionali di lavoro. Ove non previste ed in attesa che i rinnovi definiscano la materia nel contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell'azienda, i contratti collettivi aziendali conclusi con le rappresentanze sindacali operanti in azienda d'intesa con le relative organizzazioni sindacali territoriali di categoria espressione delle Confederazioni sindacali firmatarie del presente accordo interconfederale o che comunque tali accordi abbiano formalmente accettato, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale dell'impresa, possono definire intese modificative con riferimento agli istituti del contratto collettivo nazionale che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l'organizzazione del lavoro. Le intese modificative così definite esplicano l'efficacia generale come disciplinata nel presente accordo.

Insomma, dal pensiero giurisprudenziale, attraverso l'art.19 S.L. ed il D.L.13 agosto 2011 n.138, al Testo Unico sulla rappresentanza sindacale, di cui all'Accordo Interconfederale Confindustria-CGIL-CISL-UIL 10 gennaio 2014 ed alla produzione legislativa di questo terzo millennio: un itinerario che ci fa cogliere quale importanza, da parte del legislatore e del Sindacato, si annetta sempre più alla contrattazione collettiva di prossimità, in relazione alla centralità del ruolo che essa ha assunto nella gestione del sistema di relazioni industriali, nonchè ai benefici effetti ch'essa può apportare al governo dell'azienda.

Riteniamo, comunque, che, in prospettiva, da parte del legislatore dovrà sancirsi che nessun rapporto di dipendenza gerarchica intercorre tra contrattazione nazionale e contrattazione aziendale, ma unicamente una diversità di ruoli, che consente alla contrattazione aziendale, per le surrichiamate ragioni, di poter operare anche in contrasto con quella nazionale e, nei casi normativamente previsti, anche in contrasto con disposizioni di legge, ove ciò realizzi una composizione degli interessi degli interlocutori aziendali (azienda-lavoratori) che si riveli per ambedue assolutamente proficua e vantaggiosa. Tutto ciò, fermo restando che anche la contrattazione aziendale dovrà sempre coordinarsi con quella nazionale, perchè non si producano difformità, contrasti ed incongruenze su aspetti di quadro e di principio incompatibili con la funzionalità di un sistema di rapporti, che deve restare assolutamente organico ed unitario.

In tale contesto si può, pertanto, ben comprendere quanto illuminante ed apprezzabile si riveli questo "endorsement" di Mario Draghi allo strumento della contrattazione collettiva aziendale, che sembra proprio voler essere anche una sorta di benedizione di quella politica (invero illuminata!) di relazioni industriali inaugurata da Sergio Marchionne (dagli indubbi effetti positivi per la Fiat e, perchè no, anche per le sue maestranze) fortemente imperniata sulla contrattazione decentrata e, in particolare, sulla contrattazione decentrata dei salari.

E ci auguriamo che ben presto il Governo riconosca il ruolo centrale della contrattazione aziendale in tutto il sistema di relazioni industriali attraverso un crisma legislativo, che assegni a tale contrattazione, sia pur, come già osservato, nel rispetto di condizioni e limiti di carattere generale fissati dalla contrattazione nazionale (cui dovrà essere assegnato un ruolo diverso e più di quadro), una potestà normativa che consenta, in nome del contestuale soddisfacimento di interessi sia aziendali che della famiglia lavorativa aziendale, anche di poter derogare a disposizioni della contrattazione nazionale e, perché no?, della stessa legislazione del lavoro (proprio mentre ci accingiamo alla stesura della parte finale di questo nostro intervento, sul tema del ruolo della contrattazione collettiva aziendale abbiamo appena terminato la lettura di un articolo di Oscar Giannino, dal titolo "Servono contratti aziendali per cambiare sindacati e imprese", pubblicato su Leoniblog.it del 29 maggio 2015 e sul Bollettino ADAPT 03 giugno 2015 n.21. Trattasi di un contributo veramente illuminante, che, anche se non abbiamo qui il tempo di commentare, condividiamo integralmente in tutti i suoi assunti e proponiamo senz'altro all'attenzione del lettore).

La richiesta di Draghi di una governance europea delle riforme strutturali

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Il Presidente della BCE, nel suo discorso al simposio di Sintra, ha, infine, rappresentato alla nutrita platea di banchieri centrali ed economisti, nonchè ai capi di governo dell'Eurozona, cui pure il suo messaggio era rivolto, l'opportunità che la governance sulle riforme strutturali sia accentrata nelle mani di un'autorità a livello europeo, sottolineando, altresì, per la prima volta, l'esigenza che detta autorità presieda ad un'attività di coordinamento delle varie riforme, attesi i vantaggi che deriverebbero a tutti i Paesi della UE dalla concomitante e simultanea attuazione delle riforme stesse, che sono "legittimo interesse dell'intera Unione".

In merito non si può che concordare pienamente con il pensiero del supremo governatore dell'economia europea.

Considerata, infatti, l'insufficienza dei soli interventi di politica monetaria (e, da ultimo, del Q.E.) ai fini del superamento della ancora imperante deflazione e del rilancio della crescita nei Paesi dell'area euro, e dovendo prendere atto delle difficoltà e della lentezza (per le più svariate ragioni), da parte dei Governi dei singoli Paesi, nel portare avanti ed attuare in modo organico le riforme strutturali, ci sembra che l'unica garanzia, che ciascun Paese della UE proceda in tempi quanto più rapidi agli interventi richiesti dalla sua specifica situazione, non possa che essere offerta (ed in ciò sentiamo di interpretare senz'altro il pensiero di Mario Draghi), dall'approntamento di uno strumento normativo di diritto europeo, che:

a) istituisca, in seno alla UE, un'autorità investita del potere di scrivere e prescrivere, per ciascun Paese, quel minimo di interventi strutturali adeguati agli obiettivi da raggiungere, nonchè i tempi di adozione di ciascun tipo di intervento, step by step, con la previsione di adeguate sanzioni per il caso di inadempienze o ritardi;

b)riconosca a detta autorità la titolarità di poteri di monitoraggio e controllo sullo stato di avanzamento dei processi di riforma in conformità alle linee ed ai tempi programmati, nonchè di poteri di coordinamento e di relativo intervento autoritativo, onde assicurare che tutti i Paesi UE portino avanti la loro azione in modo efficiente, concomitante e simultaneo.

Riteniamo, altresì, che, nell'ambito della proposta avanzata da Mario Draghi, dovrebbe trovare spazio anche la previsione di un intervento normativo, che affidi alla BCE il potere di stabilire l'entità delle risorse finanziarie che ogni istituto di credito deve necessariamente destinare alla concessione di finanziamenti alle imprese per la realizzazione di investimenti produttivi e di mutui alle famiglie, nonchè poteri di monitoraggio sullo stato di avanzamento delle pratiche e di intervento autoritativo, anche in chiave sanzionatoria, ove la BCE dovesse verificare che l'istituto di credito non si è conformato ai criteri da essa stessa fissati ed abbia effettuato un uso delle risorse ricevute diverso da quello per cui le stesse sono state concesse.

Allo stato attuale dell'arte, comunque, mentre la concessione del credito alle imprese per il finanziamento degli investimenti produttivi è ancora ben lontana dal registrare dati di significativa ripresa (e ciò è spiegabile con il fatto che, soprattutto in assenza di una riforma del sistema tributario che alleggerisca la soffocante pressione fiscale, in difetto del completamento della riforma del mercato del lavoro che introduca i necessari elementi di flessibilità ed elimini i vincoli giuridici alla produttività ancora presenti nel sistema normativo in materia di instaurazione e gestione dei rapporti con i dipendenti, ed in attesa di interventi che eliminino tutti quei vincoli burocratici che ingessano ogni azione imprenditoriale, la domanda per investimenti produttivi ha scarse possibilità di alimentarsi….), la concessione del credito alle famiglie, alla data di stesura di questo nostro intervento, registra, invece, segni, anche se timidi, di ripresa. Dopo il mercato dei mutui per la casa, anche il credito al consumo (per l'acquisto di auto, di strumenti elettronici e, persino, per il finanziamento di cure mediche e della RC auto) ha mostrato segni di qualche riattivazione. A riprova di un iniziale risveglio del settore prestiti alle famiglie possono addursi i dati pervenuti dal barometro CRIF, che raccoglie i numeri sulle istruttorie delle domande presso le banche ed i primi quattro mesi dell'anno 2015 hanno mostrato una crescita delle richieste di prestiti dell'8,6%. Certo, come continua a ribadire il presidente BCE, qualche segnale di inizio di ripresa si è manifestato, ma occorre che l'opera dei Governi dei singoli Paesi sia portata avanti in modo persistente, radicale ed organico, affinchè il ciclo economico possa vedere una sua espansione.

In conclusione….

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Anche se ben difficilmente il pressante appello di Draghi (ch'egli, comunque, accoratamente rivolge a chiusura di ogni sua conferenza stampa) potrà tradursi in tempi brevi nell'adozione di soluzioni operative attraverso le necessarie riformulazioni dei trattati, riteniamo, comunque, che un discorso di tale consistenza e portata, tutto incentrato con enfasi ricorrente sulla necessità delle riforme strutturali, nonchè sulla necessità che l'UE avochi a sè i poteri di coordinamento ed intervento sull'attuazione delle stesse, non sia certo relegabile in una puramente teorica lectio magistralis fine a sè stessa e l'imperativo richiamo di una Guida così alta, prestigiosa e, soprattutto, assai influente ad un'azione non differibile per il bene comune dell'Europa, non potrà non dare un impulso immediato, perchè il concerto europeo si muova nel senso richiesto. Almeno, questa è la speranza da cui tutti coloro, che hanno a cuore il bene comune, non possono che essere animati….

Dal canto nostro, e pensando al sistema Italia, non possiamo che auspicare che l'appello di Mario Draghi sia raccolto al più presto, perchè, pur dovendo dare atto all'attuale compagine governativa di esprimere un impegno infaticabile (ribadiamo, mai espresso prima d'ora da chicchessia) per liberare il nostro Paese da decenni (o secoli?) di tutta quella zavorra che inibisce ogni possibilità di crescita (pesi, incrostazioni, inutili burocratismi a non finire che ingessano ogni attività di imprese e famiglie, debito pubblico esorbitante e da ridurre drasticamente, sprechi di denaro pubblico, pubblica amministrazione e spesa pubblica elefantiache ed improduttive, costi della politica alle stelle, corruzione ormai oltremodo ramificata in ogni ambito della vita pubblica, pressione fiscale soffocante e non più sopportabile sia per le imprese che per le famiglie, costi del lavoro, energetici e dei trasporti troppo elevati, vincoli giuridici ed economici alla produttività delle imprese, soprattutto relativamente alla gestione dei rapporti di lavoro, e limiti che impediscono il proficuo operare delle famiglie), in un Paese in cui molteplici sono le forze che preferiscono l'immobilismo e che si esercitano ad arenare ogni valida iniziativa a tutela di quello status che consente loro di mantenere privilegi e situazioni di potere, di personale interesse economico o di comodo, in un Paese che ha, nel DNA dei politici e, perchè no, dei suoi cittadini, la tara dell'individualismo eretto a concezione di vita che ispira ogni azione solo in funzione dell'interesse individuale di chi agisce (ad eccezione di quei pochi che stanno esprimendo, in ruolo governativo o di opposizione o nel quotidiano della loro vita ordinaria, un impegno solerte, instancabile e mirato al bene comune di ciascuno e del Paese!), e tenuto conto dei compiti immani che l'attuale Governo ha ancora da affrontare e delle difficoltà che il sistema politico potrà frapporre alla sua azione, l'unica speranza che le riforme organiche per il rilancio del Paese e dell'economia europea possano essere portate tutte ad integrale compimento, non può che restare affidata, in caso di inadempienze o lentezze da parte dei singoli Paesi, alla possibilità di interventi di imposizione autoritativa da parte della UE!

Un messaggio, dunque, quello del presidente BCE, che ci auguriamo possa essere al più presto raccolto e tradotto sul piano operativo.

E non possiamo che rammaricarci che un personaggio, come Stanley Fischer, vice presidente della Federal Reserve System ed illustre docente di economia in varie Università, presente il 22 maggio 2015 alla conferenza di Sintra, abbia aspramente criticato l'atteggiamento del presidente BCE per aver messo in risalto con una insistenza -a suo dire- esagerata l'importanza delle riforme strutturali e di invitare i governi ad attuarle in tempi brevi (citando la parola riforma, ha ricordato S. Fischer, 77 volte in soli 15 minuti…), rilevando che "un banchiere centrale può chiedere ai governi che attuino le riforme, ma non può pensare che questo sia l'argomento principale ogni volta che parla" e che "questa ossessiva insistenza sulle riforme è un metodo sbagliato di affrontare i problemi fondamentali per l'economia. Le riforme sono solo lo strumento in mano alla politica per migliorare i propri risultati, per cui tale argomento non può e non deve monopolizzare l'interesse di una banca centrale".

Vorremmo rispondere a Stanley Fischer che proprio l'instancabile insistenza dell'appello vuol essere, infatti, il segnale che il presidente BCE ha voluto lanciare per far comprendere che la BCE ha ormai esaurito le munizioni e che, senza il rafforzamento della politica monetaria europea con un'incisiva ed organica azione dei singoli Stati intesa a creare le condizioni perché la domanda per investimenti produttivi da parte delle imprese e quella per consumi da parte delle famiglie possano svilupparsi alla massima espressione, ogni prospettiva di espansione del ciclo economico è destinata ad annullarsi, per cui il discorso di Mario Draghi si sostanzia in un monito imperativo, che giustifica l'insistenza, anche ossessiva (come irresponsabilmente è stata qualificata!): se si vuole una ripresa dell'economia dell'Eurozona, o intervengono prontamente i singoli Paesi, ciascuno con la radicale riforma che gli necessita, o deve poter intervenire autoritativamente la BCE sui singoli Governi, obbligandoli ad intervenire. In caso contrario….Il messaggio è sin troppo chiaro!

Un rinnovato plauso, dunque, a Mario Draghi e ad un appello, ch'è anche sapiente Guida per il rilancio del Vecchio Continente quale attore di crescita nel concerto mondiale.


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