SUPREMA
CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 24
giugno - 18 luglio 2008, n. 19809
(Presidente Carbone -
Relatore Forte)
Svolgimento del processo
Con
sentenza del 4 dicembre 2002, la Corte d'appello di Trieste ha
rigettato la domanda di G. D., proposta con citazione notificata il 3
aprile 2001 a C. P., di riconoscimento in Italia degli effetti della
sentenza del Tribunale ecclesiastico del Triveneto del 10 marzo 2000,
confermata da decreto del Tribunale ecclesiastico regionale lombardo
del 26 ottobre 2000, di nullità del matrimonio contratto dalle
parti il 27 settembre 1997. La sentenza ecclesiastica, su ricorso del
D., aveva dichiarato nullo il matrimonio, ai sensi del canone 1098,
per dolo della P., per cui il ricorrente "matrimonium init
deceptus dolo, ad obtinendum consensum parato, circa aliquam alterius
partis qualitatem, quae suapte natura consortium vitae coniugalis
graviter perturbare potest" e "invalide contrahit".
La
Corte d'appello ha ritenuto la sentenza non delibabile per
"contrarietà all'ordine pubblico dei suoi effetti",
ai sensi dell'art. 8 della legge 21 marzo 1985 n. 121, di ratifica
dell'accordo di modifica del concordato tra Stato italiano e Santa
Sede, firmato a Roma il 18 febbraio 1984 e dell'art. 64 della legge
31 maggio 1995 n. 218, sostitutivo degli abrogati artt. 796 e 797
c.p.c., di cui all'art. 4 del protocollo addizionale a detto
accordo.
Infatti l'errore in cui era incorso il D. per il dolo
della moglie, che aveva negato una relazione con altro uomo prima del
matrimonio, era soggettivo e non poteva avere nell'ordinamento
interno l'incidenza riconosciuta dalla sentenza ecclesiastica di cui
doveva negarsi la delibazione, per essere i suoi effetti contrari
all'ordine pubblico.
Il potere della Corte territoriale di
accertare il contrasto della decisione ecclesiastica con i principi
cogenti e inderogabili del diritto matrimoniale italiano consentiva
di dare una diversa qualificazione alla fattispecie non costituente
vizio del consenso per il nostro ordinamento, anche se definibile in
quello canonico come dolo determinante.
Il fatto che la P., su
domanda del futuro marito e in prossimità delle nozze, aveva
negato di avere una relazione e la qualifica di "dolo" ai
sensi del canone 1098 per tale condotta, nel nostro ordinamento
matrimoniale non poteva dar luogo a nullità o ad annullamento
del matrimonio, perché aveva provocato un errore non incidente
su una qualità oggettiva dell'altro nubendo.
La
descritta falsa rappresentazione della realtà non era un
errore "essenziale" nel senso di cui all'art. 122 c.c., che
elenca i casi oggettivi e tassativi in cui tale vizio del consenso
rileva nell'ordinamento interno per l'annullamento del matrimonio,
casi ai quali non può assimilarsi la fattispecie in concreto
ricostruita dai giudici ecclesiastici.
Nella vicenda si è
avuta, per la Corte triestina, una condotta anteriore al matrimonio
di uno dei nubendi espressione della libertà nei rapporti
interpersonali, e l'errore indotto dalla menzogna della futura sposa
non può essere definito "essenziale", mancando della
oggettività indispensabile a qualificarlo rilevante nel
sistema interno per l'annullamento del matrimonio. Una domanda di
nullità o invalidità del matrimonio per la causa a
fondamento della sentenza da delibare, non poteva che avere esito
negativo dinanzi a un giudice italiano e, non essendo la chiesta
esecutività atto dovuto dal giudice italiano, tenuto a
valutare l'osservanza dei principi del giusto processo in sede
ecclesiastica e la conformità del contenuto della pronuncia
ali'ordine pubblico, nel caso questa non poteva avere effetto in
Italia, per contrasto con gli "essenziali e irrinunciabili
valori dell'ordinamento, espliciti o anche imminenti al
sistema".
Hanno rilevato i giudici del merito che "non
si tratta di valutare la compatibilità astratta di un istituto
canonico rispetto all'ordinamento italiano, ma di valutare la
eventuale contrarietà all'ordine pubblico italiano degli
effetti di una concreta pronuncia che di quell'istituto abbia fatto
applicazione" (pag. 10 della sentenza oggetto di ricorso).
In
conclusione, la tassatività e oggettività dei casi di
vizi del consenso rilevanti nel nostro ordinamento per la formazione
del volere e la validità del matrimonio, pur nel rilievo
dell'affidamento e della buona fede nei rapporti tra nubendi, nella
fattispecie comportava il superamento dei limiti, oltre i quali non
poteva avere rilevanza l'errore indotto da dolo. Non ogni falsa
rappresentazione della realtà di uno degli sposi può
assurgere a vizio del consenso matrimoniale, ma solo quella che ha
riguardo a fatti oggettivi, incidenti su qualità o connotati
stabili e permanenti della persona dell'altro coniuge e non a meri
comportamenti di questo, non rapportabili a suoi caratteri
qualificanti o essenziali.
Per la cassazione di questa
sentenza il D. ha proposto ricorso di quattro motivi, notificato il
16 gennaio 2004 alla P. e al P.G. presso la Corte territoriale e gli
intimati non si sono difesi.
Con ordinanza n. 17767 del 21
agosto 2007, la prima sezione di questa Corte, dato che il
riconoscimento degli effetti della sentenza ecclesiastica di nullità
matrimoniale non presuppone una identità di disciplina delle
norme canoniche con quelle italiane e che non ogni errore determinato
da dolo dell'altro nubendo dà luogo in Italia a tale
invalidità, afferma che a tal fine deve considerarsi la sola
falsa rappresentazione della realtà che ricada su circostanze
oggettive, gravi, e costituenti un serio impedimento allo svolgimento
della vita comune dei coniugi, come individuate dalla legge (art. 122
c.c.).
Pur essendo la sentenza impugnata coerente con i
principi ora delineati, negando che la menzogna sulla infedeltà
preconiugale possa dar luogo a un errore di tipo oggettivo, la prima
sezione civile ha rilevato un precedente di questa Corte (Cass. 26
maggio 1987 n. 4707), che ha riconosciuto in Italia l'efficacia di
una sentenza ecclesiastica, nella quale l'errore indotto aveva
riguardo alla laurea dell'altro nubendo e in sede canonica era stato
ritenuto essenziale.
La sezione semplice ha quindi rimesso la
causa al Primo Presidente, che ha disposto la pronuncia a sezioni
unite, per la particolare importanza della questione di massima e al
fine di evitare preventivamente contrasti.
Motivi della decisione
1.1.
Il primo motivo di ricorso denuncia violazione dell'art. 8, comma 2,
lett. c), dell'accordo del 18 febbraio 1984 di revisione del
concordato lateranense e del protocollo addizionale, ratificati con
legge 25 marzo 1985 n. 121, e degli artt. 796 e 797 c.p.c. ora
abrogati dalla legge 31 maggio 1995 n. 218.
La norma citata
dell'accordo e il punto 4 del protocollo addizionale prevedono le
condizioni necessarie per la delibazione nello Stato italiano delle
sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio, richiamando
espressamente il previgente art. 797 c.p.c., abrogato dall'art. 72
della legge n. 218 del 1995 di riforma del sistema di diritto
internazionale privato italiano.
Il rinvio a norme abrogate
del codice di rito di cui sopra, è inteso o come recettizio o
come formale, cioè o alla normativa testualmente richiamata o
alla stessa nel suo divenire nel tempo, con riferimento alle
disposizioni di legge che l'hanno sostituita.
Nella decisione
oggetto di ricorso si applica erroneamente il novellato art. 64 della
legge n. 218 del 1995, sostitutivo dell'art. 797 c.p.c. di cui al
protocollo addizionale, anche se con sentenza 30 maggio 2003 n. 8764,
la Cassazione ha chiarito che l'abrogazione con legge ordinaria degli
artt. 796 e 797 c.p.c. non rileva a fronte di un accordo
internazionale, che le richiama espressamente.
Le indicate
norme del codice di rito vanno ritenute ultraattive dopo la loro
abrogazione, almeno in riferimento alle delibazioni delle sentenze
ecclesiastiche di nullità matrimoniale e, pur essendo in parte
sovrapponibili gli artt. 796 e 797 c.p.c. da un canto e l'art. 64
della legge 218 del 1995 dall'altro, sussistono significative
differenze tra le due norme.
La Corte d'appello di Trieste,
che s'è rifatta alla sola novella normativa ed ha rilevato una
contrarietà all'ordine pubblico della sentenza ecclesiastica,
negandone la efficacia in Italia, è giunta a tale errata
conclusione, solo perché mancherebbero le condizioni previste
dalla legge interna per l'annullamento del matrimonio.
Ad
avviso del ricorrente, la Corte d'appello, in caso di cassazione con
rinvio della sentenza per un nuovo vaglio della delibazione, dovrà
individuare la normativa interna di riferimento, alla quale rifarsi
per la decisione, date le rilevanti differenze della legge n. 218/95
rispetto alle norme di rito oggi abrogate e richiamate nel protocollo
citato, dovendo il giudice italiano, nel valutare la contrarietà
all'ordine pubblico, tener conto delle "disposizioni" della
sentenza ecclesiastica (art. 797 c.p.c.) e non pure degli effetti di
questa, cui si riferisce l'art. 64 L. n. 218/95, oltre che della
"specificità dell'ordinamento canonico da cui è
regolato il vincolo coniugale" (art. 4 b Prot. add. cit.).
Per
tale "specificità", l'Italia s'è imposta una
maggiore disponibilità all'esecutività delle sentenze
ecclesiastiche di nullità del matrimonio (S.U. 1 ottobre 1982
n. 5026), che doveva dare luogo alla delibazione, come è
accaduto in casi analoghi successivi alla riforma del diritto di
famiglia (L. 19 maggio 1975 n. 151), richiamati in ricorso, nei quali
si è riconosciuta la efficacia di sentenze ecclesiastiche che
danno rilievo ad errori non sussumibili tra quelli di cui all'art.
122 c.c.
In tali precedenti la Corte di cassazione afferma che
è riservata al giudice ecclesiastico la valutazione della
"essenzialità" degli errori e nel caso, la domanda
di delibazione doveva accogliersi, perché il ricorrente è
il soggetto ingannato, a tutela della cui buona fede doveva
dichiararsi efficace in Italia la sentenza erroneamente ritenuta non
delibabile, per il rilievo riconosciuto a tale stato soggettivo, come
principio d'ordine pubblico interno rilevante nella materia
matrimoniale.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, si
lamenta omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione su
punto decisivo della controversia perché, pur avendo la Corte
di merito rinviato all'art. 64 del sistema di diritto internazionale
privato, che richiama gli effetti della pronuncia ecclesiastica in
contrasto con l'ordine pubblico, la sentenza di merito dà
rilievo alla disciplina dei vizi del consenso diversa nei due
ordinamenti, circostanza che non preclude l'esecutività della
sentenza dell'altro ordinamento, ai sensi dell'art. 797 n. 7
c.p.c.
Non emergono dalla decisione impugnata le ragioni a
sostegno della decisione per negare efficacia alla sentenza
ecclesiastica di nullità e le statuizioni o disposizioni di
quest'ultima, in contrasto con l'ordine pubblico italiano.
1.3.
Il terzo motivo d'impugnazione lamenta infine violazione dell'art. 8,
n. 2, lett. c dell'accordo del 1984 di cui al primo motivo di ricorso
e degli artt. 796 e 797 c.p.c., oltre che dell'art. 64 della legge n.
218 del 1995, anche per omessa o insufficiente motivazione su fatti
decisivi posti a base della negata delibazione.
Non ha
vagliato la Corte territoriale gli altri requisiti per la
delibazione, come quelli di ordine pubblico processuale, secondo i
criteri di collegamento di cui alle norme citate del codice di rito,
cui rinviano i patti addizionali del 1984, limitandosi a valutare il
mero contrasto con il sistema interno dei contenuti della pronuncia,
con insufficiente motivazione su tale punto decisivo.
2. I tre
motivi di ricorso possono esaminarsi insieme, denunciando tutti la
violazione della legge 25 marzo 1985 n. 121 di ratifica dell'accordo
interordinamentale e del protocollo addizionale del 1984 più
volte citati, sostitutivi del concordato lateranense tra Repubblica
italiana e Santa Sede e la insufficiente motivazione sui presupposti
di fatto in base ai quali si è negato il riconoscimento in
Italia degli effetti della sentenza di nullità matrimoniale
nella concreta fattispecie, per contrasto con l'ordine pubblico.
Il
D. lamenta l'erroneo rilievo dato dai giudici di merito al nuovo
sistema di diritto internazionale privato di cui alla legge n. 218
del 1995 e alla diversità di disciplina dei vizi del consenso
nell'ordinamento canonico e in quello civile, negandosi pure la
tutela della sua buona fede (primo motivo di ricorso), non risultando
a suo avviso dalla motivazione la ratio decidendi del rifiuto del
riconoscimento della esecutività della sentenza ecclesiastica
(secondo motivo) e non dandosi rilievo agli altri profili di cui
all'abrogato art. 797 c.p.c. e all'ordine pubblico processuale (terzo
motivo).
2.1. Anche se formalmente esatta, non coglie nel
segno la censura sull'errore della Corte d'appello nel ritenere
formale il rinvio agli artt. 796 e 797 c.p.c. di cui all'art. 4 lett.
b del protocollo addizionale del 1984 e nell'applicare il diritto
internazionale privato novellato e non le indicate norme di
rito.
L'abrogazione di tali norme del codice non ha comportato
la loro inapplicabilità nel giudizio di delibazione delle
sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, essendo
divenuto il previgente art. 797 c.p.c. parte della convenzione
interordinamentale che lo richiama, con l'effetto che, ai sensi
dell'art. 2 della legge 218 del 1995, tale accordo prevale, come
regola speciale, sul generale criterio di collegamento dell'art. 64
del sistema di diritto internazionale privato (Cass. 10 maggio 2006
n. 10796, 1 dicembre 2004 n. 22514, e la n. 8764/2003 citata in
ricorso). Il giudice della delibazione deve valutare il contrasto
delle disposizioni contenute nella sentenza ecclesiastica con
l'ordine pubblico che, per l'art. 797 n. 7 c.p.c., è solo
quello "italiano" e non anche quello "internazionale",
al quale implicitamente si rifà l'art. 64 della legge n. 218
del 1995, che non limita a quello interno il parametro a cui
rapportare le pronunce da riconoscere (sull'ordine pubblico
internazionale, cfr. Cass. 6 dicembre 2002 n. 17349). Nessuna
pronuncia di altro ordinamento può avere efficacia in Italia
se le sue statuizioni e i suoi effetti siano contrari, nella materia
in cui decide e in riferimento agli istituti che applica, a valori
irrinunciabili per lo Stato a cui si chiede il riconoscimento della
sentenza.
Tali valori sono costitutivi della stessa identità
dell'ordinamento interno e il contrasto con essi delle deliberazioni
di pronunce di altri ordinamenti, ne impedisce la rilevanza
nell'ambito dello Stato a cui si chiede di riconoscerne
l'efficacia.
Anche se l'ordine pubblico interno non è
assimilabile alla disciplina delle specifiche norme che regolano i
singoli istituti cui inerisce, esso non è però un
insieme di valori generici e indistinti, identificando "il
sistema interno" che, per ciascun istituto, fa emergere gli
elementi essenziali e irrinunciabili della sua regolamentazione in
Italia il cui superamento è vietato, perché lesivo dei
caratteri qualificanti e della stessa identità giuridica di
ogni fattispecie su cui incide la pronuncia da delibare.
Per
quanto rileva in questa sede, dall'ordine pubblico interno sono
individuati i limiti esterni di tali caratteri qualificanti gli
istituti che rilevano nel matrimonio in una certa fase storica;
assumono rilievo peculiare nel nostro diritto vivente a tal fine i
fatti accertati in sede canonica come causa di invalidità del
matrimonio, non potendosi delibare sentenze che si fondino su
circostanze che nell'ordine interno in nessun caso possono incidere
sul vincolo. Nel caso di specie, in rapporto alla formazione del
consenso, solo se i fatti accertati in sede canonica possono incidere
sulla volontà dei nubendi in base ai principi cogenti del
nostro ordinamento, le decisioni su di essi, anche se applicative di
norme non identiche a quelle interne, possono produrre in Italia i
loro effetti, dovendo ritenersi non incompatibili con l'ordine
pubblico interno.
Venuta meno la riserva di giurisdizione in
materia di nullità di matrimoni concordatari per i giudici
ecclesiastici di cui ai patti lateranensi del 1929 abrogati dagli
accordi del 1984, per le Corti d'appello la delibazione non è
più automatica
o
obbligatoria (S.U. 1 marzo 1988 n. 2164), dovendo esse valutare se i
fatti accertati con effetto di giudicato in sede canonica ovvero
risultanti dalle sentenze di cui si chiede il riconoscimento
rivalutate dai giudici italiani nel giudizio di delibazione (Cass. 1
febbraio 2008 n. 2467), varchino o meno la soglia-limite, che impone
l'ordine pubblico.
Solo se le fattispecie concrete decise in
sede canonica superano il raffronto con l'ordine pubblico interno che
esprime i valori cogenti del comune sentire, come emergenti
dall'insieme delle norme costituzionali e ordinarie e delle loro
modifiche nel tempo, le sentenze che le riguardano possono produrre i
loro effetti in Italia; in caso di contrasto manifesto con i valori
propri del sistema normativo interno, le sentenze degli altri
ordinamenti e i loro effetti non possono riconoscersi in Italia.
Le
modificazioni normative che intervengono a regolare gli istituti
giuridici nella materia esprimono i mutamenti nel tempo della
coscienza sociale, contribuendo poi esse stesse a cambiare
quest'ultima e concorrendo a formare un sistema, che logicamente non
è fisso e al quale è soggetto il giudice in sede di
delibazione, ai sensi dell'art. 101, 2 comma, Cost. Di tale ordine
pubblico, desumibile dall'insieme delle norme inderogabili per
l'ordinamento interno di cui all'art. 797 n. 7 c.p.c. deve tenere
conto il giudice della delibazione e, pur se erroneamente richiamando
l'art. 64 del nuovo sistema di diritto internazionale privato, ad
esso si è riferita la sentenza oggetto di ricorso, con
conseguente irrilevanza dell'errore di interpretazione del rinvio
alle novelle invece che alle abrogate norme del codice di rito
ritenute superate e infondatezza, per tale profilo, del ricorso del
D.
2.2. La sentenza della Corte Costituzionale 2 febbraio 1982
n. 18, che ha concorso a dar luogo alla modifica citata del
concordato e al protocollo addizionale più volte richiamati,
ha chiarito che, anche in rapporto all'art. 7 della Cost.,
l'esecutività della sentenza ecclesiastica di nullità
non può negarsi solo per la difformità di disciplina
dei due ordinamenti, ma va rifiutata se tale diversità si
traduca nella violazione dei "principi supremi del sistema
costituzionale", desumibili dagli artt. 2, 3, 7, 24, 25, 29, 31,
101 e 102 della Costituzione, ai quali la stessa Corte aveva già
fatto riferimento nella sua sentenza n. 30 del 24 febbraio 1971.
A
tali principi supremi peraltro non può limitarsi l'ordine
pubblico italiano, individuato dalla stessa citata sentenza del
giudice delle leggi nelle "regole fondamentali poste dalla
Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici, in cui si
articola l'ordinamento positivo nel suo adeguarsi all'evoluzione
della società".
Tali regole assumono rilievo
ostativo all'esecutività delle sentenze ecclesiastiche di
nullità del matrimonio concordatario per i giudici italiani,
che devono tenere presente, ai sensi del protocollo addizionale
citato, "la specificità" del diritto canonico e con
essa il maggiore favore che lo Stato italiano accorda alla efficacia
interna delle sentenze emesse in base a quell'ordinamento, rispetto
alle pronunce di altri Stati esteri (così S.U. 1 ottobre 1982
n. 5026 dopo la Corte costituzionale ora citata). La mera diversità
di disciplina normativa di uno stesso istituto nei due ordinamenti
(Cass. 9 dicembre 1993 n. 12144) è presupposto necessario ma
non sufficiente perché possa esservi un'incompatibilità
di una pronuncia interna di uno di tali ordinamenti con l'ordine
pubblico dell'altro.
In rapporto alla formazione del consenso
nel matrimonio, ritenuto viziato dal giudice ecclesiastico in
applicazione dell'ordinamento canonico, vige in Italia, anche per lo
stretto rapporto della formazione alla manifestazione del volere, il
principio della oggettività e della tassatività dei
casi nei quali la volontà dei nubendi può ritenersi non
libera né consapevole e dar luogo a vizi del volere rilevanti
per l'ordinamento interno, che sono: la minaccia di un male ingiusto
e notevole o altra causa esterna che determini un timore di
eccezionale gravità e l’errore essenziale su qualità
personali dell'altro coniuge, riguardante circostanze specifiche
(art. 122 c.c.).
Tali tipi di vizio incidono in Italia sulla
formazione del volere e sulla validità del matrimonio, con la
conseguenza che le sole sentenze ecclesiastiche che si fondono su
vizi con i caratteri oggettivi almeno analoghi a quelli indicati, non
determinano contrasto con l'ordine pubblico interno ostativo al loro
riconoscimento (sul rilievo dell'ordine pubblico per la delibazione
cfr., di recente, Cass. 14 febbraio 2008 n. 3709, 10 maggio 2006 n.
10796, 6 marzo 2003 n. 3339, 20 luglio 2002 n. 10143, 8 gennaio 2001
n. 198, 27 novembre 1991 n. 12671, 27 novembre 1991 n. 12671 e S.U. 1
ottobre 1982 n. 5026).
2.3. In rapporto alle sentenze di
annullamento di matrimonio dei giudici degli Stati membri della U.E.,
la cui validità e efficacia è di regola reciprocamente
riconosciuta per effetto del Regolamento del Consiglio del 29 maggio
2000 n. 1347, questo, all'art. 40, dà rilievo,"per
l'Italia, al concordato con le modifiche del 1984, e all'art. 15,
nega tra detti Stati l'esecutività alle sentenze di invalidità
del matrimonio, se questa comporti un effetto "manifestamente
contrario all'ordine pubblico dello Stato membro richiesto" di
riconoscerle.
La normativa comunitaria, che costituisce nel
nostro ordinamento fonte primaria e inderogabile, precisa che la
delibazione della sentenza di annullamento di altro Stato della U.E.
non può essere negata solo "perché la legge dello
Stato membro richiesto non prevede per i medesimi fatti" lo
stesso tipo di annullamento, così come è previsto anche
per le sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio dal
protocollo addizionale citato, che inoltre vieta, come il Regolamento
di cui sopra, al giudice della delibazione, il riesame nel merito
delle pronunce oggetto di riconoscimento (artt. 18 e 19 Reg. cit.),
consentendo di negare la esecutività solo in caso di contrasto
del contenuto o degli effetti di queste ultime con l'ordine pubblico
interno.
Mentre per le sentenze degli altri Stati della U.E.,
nonostante la rilevante uniformità normativa e lo stretto
collegamento derivante dal Trattato, il riconoscimento di efficacia
delle sentenze in materia di invalidità del matrimonio è
da negarsi in Italia per ogni contrasto con l'ordine pubblico
interno, per quelle ecclesiastiche, detta incompatibilità è
invece da considerare in rapporto alla "specificità"
dell'ordinamento canonico di cui al protocollo addizionale, e quindi
la delibazione va negata soltanto se i giudici ecclesiastici abbiano
dato rilievo a valori assolutamente incompatibili con quelli cogenti
allo stesso fine, per la fattispecie cui la pronuncia si
riferisce.
2.4. In sostanza, per il riconoscimento delle
sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio, non ogni
incompatibilità con l'ordine pubblico italiano rileva a
impedire l'efficacia di esse in Italia, dovendo il giudice della
delibazione tenere conto della specificità dell'ordinamento
canonico.
Occorre distinguere le incompatibilità delle
sentenze di cui si chiede l'esecutività in Italia con l'ordine
pubblico interno in "assolute" e "relative".
Tali
incompatibilità, di regola, ostano all'esecuzione in Italia
delle sentenze di altri ordinamenti in materia matrimoniale, ma hanno
diversa rilevanza per il riconoscimento degli effetti di quelle
canoniche, in base al protocollo addizionale del 1984. La
incompatibilità con l'ordine pubblico interno delle sentenze
di altri ordinamenti è "assoluta", allorché i
fatti a base della disciplina applicata nella pronuncia di cui è
chiesta la esecutività e nelle statuizioni di questa, anche in
rapporto alla causa petendi della domanda accolta, non sono in alcun
modo assimilabili a quelli che in astratto potrebbero avere rilievo o
effetti analoghi in Italia.
L'incompatibilità con
l'ordine pubblico interno va qualificata invece "relativa",
quando le statuizioni della sentenza ecclesiastica, eventualmente con
la integrazione o il concorso di fatti emergenti dal riesame di essa
ad opera del giudice della delibazione, pure se si tratti di
circostanze ritenute irrilevanti per la decisione canonica, possano
fare individuare una fattispecie almeno assimilabile a quelle interne
con effetti simili.
Impediscono l'esecutività in Italia
della sentenza "ecclesiastica" solo le incompatibilità
assolute, potendosi superare quelle relative, per il peculiare
rilievo che lo Stato italiano si è impegnato con la Santa Sede
a dare a tali pronunce.
Il riesame dai giudici italiani in
sede di delibazione delle valutazioni dei giudici ecclesiastici non
può incidere sul merito delle sentenze da questi pronunciate,
ma può rilevare, per la delibazione, l'accertamento, nella
pronuncia canonica, di fatti non ritenuti significativi per l'altro
ordinamento, ma indispensabili a configurare una causa che possa
incidere sulla formazione e/o manifestazione del consenso nel
matrimonio e non incompatibile con quelle previste in modo cogente
dal diritto interno.
3.1. Nella concreta fattispecie, per
l'individuazione dell'ordine pubblico interno, occorre che il giudice
della delibazione esamini le cause di invalidità accertate
dalla sentenza ecclesiastica, per rilevare se esse non siano del
tutto diverse da quelle con analoga incidenza per il sistema interno
sulla "formazione" e sulla "manifestazione" del
consenso, caratteri dell'istituto strettamente connessi per il
diritto interno, ai fini dell'accertamento della invalidità
del matrimonio.
In nessuno dei casi tassativi di legge del
sistema interno che incidono nella formazione del consenso, assume
rilievo peculiare la coscienza interna dei nubendi cui invece
l'ordinamento canonico dà priorità, in relazione alle
istanze etiche che in esso si configurano.
L'incidenza
inderogabile,
nel nostro diritto vivente, della forma e della "manifestazione"
del consenso da una canto comporta la tipicità con
l'oggettività e il carattere esterno delle cause che incidono
sulla formazione di esso, perché possa considerarsi viziata o
mancante la volontà e d'altro canto giustificano lo speciale
rilievo del "rapporto" coniugale, che, nato dall'atto,
incide con la sua realizzazione tipica costituita dalla convivenza o
coabitazione spesso per un certo periodo di tempo, come fatto
convalidante la volontà espressa all'atto della celebrazione e
ostativo, per l'ordine pubblico italiano, a far rilevare l'invalidità
del consenso del matrimonio in sede giurisdizionale.
La
riforma del diritto di famiglia ha collegato al decorso di un tempo
in genere maggiore di quello in precedenza ritenuto dalla legge
ostativo all'annullamento, il rilievo del matrimonio rapporto,
riconosciuto in precedenza ma assunto ora a valore cogente, per lo
stretto nesso tra esso e il matrimonio atto, sancito nella
Costituzione (art. 29).
Non si tratta quindi di mere
differenze di disciplina tra i due ordinamenti, ma del rilievo
cogente della formazione e manifestazione del consenso per il nostro
ordine pubblico interno, i cui vizi possono risultare solo da
circostanze esterne e oggettive, potendo riconoscersi la efficacia in
Italia della sentenza attuativa dell'ordinamento canonico, sempre che
abbia deliberato in base a circostanze oggettive, e non solo per aver
dato attuazione a valori che, per il sistema interno, sono
metagiuridici, rispettabili e significativi per il foro interno e la
coscienza personale, ma non assumibili come rilevanti per l'ordine
pubblico italiano.
Nel sistema interno, trovano disciplina
fatti oggettivi e circostanze esterne a fondamento dei vizi del
consenso rilevanti per la invalidità del matrimonio; allorché
i giudici ecclesiastici, in applicazione del diritto canonico,
individuino fatti assimilabili, perché oggettivi, a quelli che
per il nostro ordinamento incidono sulla formazione del consenso,
anche se in applicazione di norme diverse da quelle italiane, va resa
esecutiva la pronuncia ecclesiastica di nullità del
matrimonio, attuandosi in tal modo, con il protocollo addizionale,
anche il rispetto del pluralismo costituente principio fondante di
ogni democrazia sia nel nostro sistema (art. 2 Cost.), che per
l'ordine pubblico internazionale.
La specificità
dell'ordinamento canonico nel protocollo addizionale non può
assumere rilievo a far riconoscere fattispecie alle quali, per i
principi cogenti del nostro ordinamento, è vietato comunque
produrre effetti simili a quelli delle sentenze di cui si chiede il
riconoscimento in Italia.
3.2. In ogni giudizio di
riconoscimento degli effetti di una sentenza di altri ordinamenti di
annullamento del matrimonio, non può non tenersi conto che,
nel nostro ordine anche costituzionale, il matrimonio è
finalizzato alla stabilità del vincolo che si esprime nel
rapporto coniugale e nella famiglia, oltre che alla certezza dello
status, per cui le cause di invalidità costituiscono, per
l'ordinamento interno, "eccezioni" o deroghe alla naturale
validità di esso, confermata anche dal matrimonio rapporto,
che si manifesta nella perdurante coabitazione dei coniugi o nella
convivenza dopo l'atto matrimoniale (sulla tutela c.d. "forte"
del matrimonio cfr. Cass. 5 maggio 1998 n. 4500 e 7 maggio 1986 n.
3057).
L'ordine pubblico italiano impedisce la esecutività
di sentenze di altri ordinamenti che annullino il matrimonio, se
incompatibili con esso, qualsiasi sia il grado di tale
incompatibilità; per le sentenze ecclesiastiche di nullità
matrimoniale, il regime concordatario comporta una graduazione di
tali contrasti, impedendo la delibazione in ogni caso le
incompatibilità c.d. assolute e potendo invece avere accesso
nel sistema interno gli effetti di sentenze in contrasto relativo con
l'ordine pubblico italiano.
La sentenza impugnata ha
esattamente ritenuto assolutamente incompatibile con il nostro ordine
pubblico interno la pronuncia di nullità del matrimonio, nel
caso di errore soggettivo, e deve quindi negarsi la violazione di
legge dedotta nei motivi di ricorso, sulla base del principio di
diritto che segue, da enunciare ai sensi dell'art. 384, 1 comma
c.p.c. nella presente questione di particolare importanza: "può
riconoscersi l'efficacia in Italia delle sentenze di altri
ordinamenti solo qualora non siano incompatibili con l'ordine
pubblico interno e, rispetto a quelle di altri Stati di annullamento
del matrimonio, il limite di riconoscibilità è
costituito da ogni tipo di incompatibilità, assoluta o
relativa. Delle sentenze ecclesiastiche di nullità del
matrimonio, in ragione del favore particolare al loro riconoscimento
che lo Stato italiano s'è imposto con il protocollo
addizionale del 18 febbraio 1984 modificativo del concordato, è
possibile la delibazione anche in caso di incompatibilità
relativa, che sussiste allorché la divergenza delle
statuizioni contenute nella pronuncia con le norme e i principi
inderogabili interne, possa superarsi, attraverso la individuazione
di circostanze o fatti, desumibili dal riesame non di merito di tali
decisioni, ad opera del giudice della delibazione, che individui
elementi di fatto nella sentenza da riconoscere, pure irrilevanti per
il diritto canonico, indispensabili a conformare le deliberazioni
della pronuncia da riconoscere ai valori o principi essenziali della
coscienza sociale, desunti dalle fonti normative costituzionali e
dalle norme inderogabili, anche ordinarie, nella materia
matrimoniale".
4.1. Il principio enunciato, anche se non
sempre consapevolmente e formalmente, ha trovato applicazione
sostanziale nella giurisprudenza di legittimità, consolidatasi
negli ultimi anni.
Le sentenze richiamate dal D. a sostegno
delle dedotte violazioni di legge, riguardano pronunce ecclesiastiche
riconosciute nei loro effetti, per vizi nella formazione del consenso
costituiti da errori su circostanze oggettive, assimilabili a quelle
di cui all'art. 122 c.c. e attinenti a connotati stabili o permanenti
della persona dell'altro nubendo, e quindi non incompatibili in via
assoluta con l'ordine pubblico interno, trattandosi di errori incorsi
su anomalie psichiche incidenti sulla vita coniugale ovvero sullo
stato libero dell'altro nubendo (Cass. 6 dicembre 1985 n. 6134, 9
dicembre 1993 n. 12144, 5 maggio 1998 n. 4500, citate a pag. 13 del
ricorso).
La sentenza che ha riconosciuto in Italia gli
effetti di quella canonica che annulla il matrimonio per un errore
relativo alla qualifica di laureato dell'altro nubendo (la citata
Cass. n. 4707/87), riguarda comunque una falsa rappresentazione della
realtà su una circostanza oggettiva (il diploma di laurea),
che inerisce a una qualificazione permanente dell'altro coniuge,
quella di laureato, oggetto di errore ritenuto essenziale dal giudice
ecclesiastico, ed è quindi solo relativamente e non
assolutamente in contrasto con l'ordine pubblico interno, per cui il
principio enunciato non è stato in essa eluso.
4.2. La
specialità o specificità delle cause di invalidità
del matrimonio nel sistema interno, tutte e ciascuna analiticamente
individuate da norme di diritto in circostanze oggettive ed esterne,
è principio cogente del diritto italiano. La differenza di
disciplina di tali fattispecie con quelle dell'ordinamento canonico
da sola non osta alla delibazione, anche in rapporto ai vizi del
volere, purché la dichiarata invalidità del matrimonio
religioso da parte dei giudici ecclesiastici sia ancorata a fatti
oggettivi analoghi a quelli rilevanti per gli stessi fini
nell'ordinamento interno, ovvero a circostanze non assolutamente
irrilevanti per esso, in rapporto alla formazione del consenso
matrimoniale e all'annullamento del matrimonio.
Per il nostro
sistema, il matrimonio non è annullabile o nullo per le
medesime cause che rendono invalido ogni altro atto di volontà,
stabilendosi, con le cause d'impugnazione che in questa sede non
rilevano e in rapporto a quelle relative al consenso, una disciplina
specifica della incapacità dei nubendi, compresa quella di
intendere e di volere (artt. 117, 119 e 120), in deroga a quella
generale per la annullabilità del contratto, di cui agli artt.
1425, 427 e 428 c.c. Peraltro, la chiara incidenza che l'incapacità
del nubendo ha sulla formazione del consenso, comporta che di regola
alle sentenze di annullamento del matrimonio concordatario fondate su
di essa, si è riconosciuto accesso nel nostro ordinamento, per
il quale un accertamento della inidoneità o incapacità
di intendere e di volere o di agire, di uno o entrambi i nubendi, fa
presumere un consenso viziato anche secondo i principi cogenti
interni, tanto che si è riconosciuto/ la sentenza
ecclesiastica di nullità fondata sull'errore essenziale
dell'altra parte su tali incapacità, qualificate come qualità
o connotati permanenti dell'altro coniuge (così con Cass. 25
novembre 1988 n. 6331, due delle sentenze richiamate in ricorso e già
indicate; sull'incapacità di assumere gli oneri del matrimonio
cfr. pure, la recente Cass. 10 maggio 2006 n. 10796).
In
ordine alla legittimazione ad agire per far valere tali incapacità,
che l'ordinamento canonico ha esteso nel tempo ad entrambi i nubendi,
in ragione del peculiare rilievo che nel sacramento ha la capacità
di chi ne è ministro, si è ritenuto (Cass. 24 luglio
1987 n. 6444) di poter riconoscere in Italia gli effetti della
sentenza ecclesiastica di nullità conseguente all'azione anche
di colui che non sarebbe stato legittimato ad agire per le norme
interne (artt. 119 e 120, comma 1 c.c.).
La disciplina della
legittimazione anche sostanziale non incide sul matrimonio atto o
rapporto e quindi la diversità di essa nelle azioni di
annullamento nei due ordinamenti non comporta una incompatibilità
assoluta della sentenza canonica con l'ordine pubblico interno.
4.3.
Vi
è in Italia una regolamentazione restrittiva dei vizi del
consenso, rilevando solo la violenza e l'errore nei limiti dell'art.
122 c.c.; tali vizi rilevano se risultano da cause esterne e
oggettive, non potendo quelle interne o soggettive avere rilievo per
un atto solenne come il matrimonio.
Non ha rilievo, inoltre,
nel sistema interno, il dolo, previsto come causa di annullamento del
matrimonio nell'ordinamento canonico e come vizio del consenso negli
altri atti di volontà (artt. 1427 e ss. c.c.); in ordine alla
simulazione, la cui disciplina sopravvenuta nel nuovo diritto di
famiglia (art. 123 c.c.), è diversa, nella nozione e negli
effetti, da quella generale del medesimo istituto negli altri atti
volontari, di cui all'art. 1414 e ss. c.c., vi è la conferma,
nel sistema, dell'assoluta importanza del matrimonio rapporto,
potendosi rilevare l'invalidità dell'atto non voluto nei suoi
effetti.
La sentenza ecclesiastica che annulla un matrimonio
religioso per dolo o riserva mentale, fattispecie irrilevanti e non
incidenti sulla validità del matrimonio in Italia, è
stata ritenuta relativamente incompatibile con l'ordine pubblico e
delibabile, se gli artifizi o raggiri d'una parte abbiano determinato
errori con i caratteri oggettivi, che l'assimilano a quelli rilevanti
nel nostro sistema, sempre che tale natura emerga da fatti accertati
dalla pronuncia ecclesiastica, eventualmente rivalutata nel giudizio
di delibazione.
La mera volontà di uno dei nubendi di
negare gli effetti del matrimonio, rilevante in sede canonica e nel
sistema interno qualificata come riserva mentale, s'è ritenuta
riconoscibile come causa di invalidità del matrimonio perché
non in contrasto assoluto con l'ordine pubblico interno, qualora
possa accertarsi la intervenuta manifestazione di tale volontà
di non volere i frutti del matrimonio all'altro nubendo ovvero la
conoscenza (o almeno la conoscibilità), da questo, di tale
volontà unilaterale, per assimilare il caso a quello della
simulazione, considerato pure il rilievo dell'affidamento del
destinatario della dichiarazione, contrastante con gli effetti
dell'atto. Si è così dato rilievo di ordine pubblico
alla buona fede, stato soggettivo cui prima la giurisprudenza e poi
le stesse norme del nuovo diritto di famiglia hanno dato ingresso
specifico nella materia matrimoniale (artt. 129 e 129 bis c.c.).
Si
sono riconosciute efficaci in Italia sentenze ecclesiastiche che
hanno annullato il matrimonio per l'esclusione unilaterale dei bona
matrimonii, se manifestata all'altro nubendo, in rapporto alla natura
bilaterale o unilaterale recettizia degli atti cui è
applicabile la simulazione, integrandosi il fatto da solo rilevante
per l'annullamento nel diritto canonico, con la circostanza della
conoscenza della volontà dell'altro nubendo contrastante con
il consenso espresso, da parte del destinatario di questo, così
individuando una incompatibilità solo relativa con l'ordine
pubblico interno della pronuncia canonica (tra altre Cass. 19 ottobre
2007 n. 22011, 7 dicembre 2005 n. 27078, 28 marzo 2001 n.
4487).
L'ordine pubblico interno matrimoniale evidenzia un
palese "favor" per la validità del matrimonio, quale
fonte del rapporto familiare incidente sulla persona e oggetto di
rilievo e tutela costituzionali, con la conseguenza che i motivi per
i quali esso si contrae, che, in quanto attinenti alla coscienza,
sono rilevanti per l'ordinamento canonico, non hanno di regola
significato per l'annullamento in sede civile. Così si è
giustamente ritenuto assoluto il contrasto con l'ordine pubblico
interno di una sentenza ecclesiastica di nullità, fondata
sull'apposizione di una condizione al vincolo matrimoniale, relativa
alla residenza familiare, se non manifestata o almeno conosciuta o
conoscibile dall'altro nubendo (in tal senso, Cass. 6 marzo 2003 n.
3339), essendo l'elemento accidentale lo strumento tipico per dare
rilievo ai motivi interni di entrambe le parti.
Tale ultima
pronuncia di legittimità implicitamente dà rilievo
anche al matrimonio-rapporto che, come si è detto, nell'ordine
pubblico italiano ha una incidenza rilevante, per i principi
emergenti dalla costituzione e dalla riforma del diritto di famiglia
e impedisce di annullare il matrimonio dopo che è iniziata la
convivenza e spesso se questa è durata per un certo periodo di
tempo (artt. 120, cpv., 121, 3 comma, e 123, cpv., c.c.).
Non
appare condivisibile, alla luce della distinzione enunciata tra cause
di incompatibilità assoluta e relativa delle sentenze di altri
ordinamenti con l'ordine pubblico interno, qualificare come relative
quelle delle pronunce di annullamento canonico intervenute dopo molti
anni di convivenza o coabitazione dei coniugi, ritenendo
l'impedimento a chiedere l'annullamento di cui sopra mera condizione
di azionabilità, da considerare esterna e irrilevante come
ostacolo d'ordine pubblico alla delibazione.
Dopo molte
incertezze sul carattere ostativo alla delibazione dei comportamenti
di coabitazione o della convivenza dei coniugi, la giurisprudenza
attualmente prevalente esclude che tali condotte, se rilevate,
comportino contrasto assoluto con l'ordine pubblico interno e
impediscano il riconoscimento della sentenza di nullità
matrimoniale canonica (Cass. 10 maggio 2006 n. 10796, 7 aprile 2000
n. 4387, 7 aprile 1997 n. 3002, 17 giugno 1990 n. 6552 e 17 ottobre
1989 n. 4166, tra molte, e in senso inverso o difforme, le precedenti
Cass. 12 aprile 1987 n. 5354 e 5358, 3 luglio 1987 n. 5823, 13 giugno
1984 n. 3536 e 19 maggio 1984 n. 1220).
Nel caso, la eccezione
della coabitazione tra i coniugi non s'è esaminata e
prospettata in sede di merito ed è quindi irrilevante nel
giudizio di legittimità, ma appare opportuno il riferimento ad
essa per il carattere di massima della presente pronuncia sulla
questione.
5.1. Salvo il rilievo del matrimonio rapporto che
può sanare l'atto invalido, confermando il consenso viziato o
mancante all'atto dell'assunzione del vincolo, non possono di regola
rilevare nel nostro sistema fatti antecedenti al matrimonio, che non
incidano nei modi di legge sulla formazione o manifestazione del
consenso, ai fini dell'invalidità e, quindi, nessun rilievo
può darsi all'infedeltà prematrimoniale e all'errore
eventuale su di essa.
La causa di nullità su cui si
fonda la sentenza ecclesiastica di cui si è chiesta la
delibazione non è prevista nel nostro ordinamento né è
collegabile a altre circostanze di fatto, che possano configurare un
vizio della formazione del volere del nubendo, che abbia un qualsiasi
rilievo in sede civile per dar luogo ad un matrimonio invalido.
Nel
sistema interno unici vizi sono, come già detto, violenza ed
errore (art. 122 c.c.), e la maggiore gravità della prima
rispetto al secondo emerge nella incidenza di essa sul rapporto (art.
128 c.c.).
L'errore rilevante per l'annullamento del
matrimonio, non diversamente da quanto previsto per'ogni ipotesi in
cui esso incide sulla formazione del consenso, deve essere
"essenziale".
I principi e le norme cogenti non
impongono nel matrimonio, perché l'errore rilevi, che esso sia
anche "riconoscibile" per l'altra parte non incorsa nella
falsa rappresentazione della realtà (art. 1431 c.c.), perché
non vi è la necessità di tutela dell'affidamento di
essa, in ragione degli elementi oggettivi che la fanno presumere e
comunque prevalendo l'esigenza di certezza dello status di coniugato
per l'ordine pubblico interno su tale affidamento, a differenza di
quanto sembra dedurre il ricorrente, che afferma di essere stato
ingannato e chiede tutela pure per tale profilo.
L'errore è
causa di annullamento del matrimonio se ricade sull'identità o
su qualità significative della persona dell'altro nubendo, da
intendersi come connotati stabili e permanenti di questo, in analogia
a quanto sancito dall'art. 1429 c.c. e sempre che abbia riguardo alle
circostanze oggettive o tipiche, che seguono, elencate nell'art. 122
c.c.: malattia fisica o psichica o anomalia o deviazione sessuale che
impedisca lo svolgimento della vita coniugale, condanna per delitto
non colposo alla reclusione non inferiore a cinque anni prima del
matrimonio, dichiarazione di delinquenza abituale o professionale,
condanna per delitti concernenti la prostituzione, stato di
gravidanza procurato da soggetto diverso da quello caduto in errore
(3" comma n. 1 - 5).
Sono quindi riconoscibili in Italia
le sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniali, fondate su
errori riguardanti fatti oggettivi, anche diversi da quelli di cui
all'art. 122 c.c., purché incidenti su connotati o "qualità"
ritenute significative in base ai valori usuali e secondo la
coscienza sociale comune, che abbiano determinato al matrimonio chi è
caduto in errore (Cass. 16 novembre 2005 n. 23073).
In caso di
dolo, non basta accertare che l'errante non avrebbe prestato il suo
consenso senza tale indotta falsa rappresentazione della realtà
di fatto, ma occorre, per la delibazione, che questa riguardi casi
comparabili con quelli oggettivi, permanenti e tassativi di cui
sopra.
Per l'errore essenziale descritto, in base alla
disciplina interna, se è possibile una valutazione del
giudice, in ordine ad es. alla gravità della malattia sulla
quale è caduto l'errore o all'incidenza delle circostanze
ignorate sullo svolgimento della vita coniugale
(matrimonio-rapporto), tali valutazioni di merito del giudice
canonico, sulle quali nessuna verifica o controllo può
effettuare il giudice italiano, ai sensi dell'art. 4 b del protocollo
addizionale del 1984, non rilevano se prima non risulta che la falsa
rappresentazione della realtà ha riguardato fatti oggettivi e
ha inciso sulla ignoranza di caratteristiche o connotati stabili
costituenti qualità permanenti della persona dell'altro
nubendo. Nessuna incidenza può avere per i principi cogenti
del nostro ordinamento l'errore incorso (anche se indotto) su
comportamenti temporanei e occasionali,
che
nel nostro sistema danno luogo a un vizio del volere irrilevante in
ogni atto volontario, quale è l'errore sul motivo,
significativo invece in sede canonica e per il matrimonio
religioso.
Appare certo che, anche a non tener conto che la
menzogna di regola non rileva come artificio o raggiro (art. 1426
c.c.) per carpire il consenso, nella concreta fattispecie, essa ha
dato luogo ad un errore riguardante una condotta temporanea di
infedeltà prematrimoniale dell'altro nubendo, nel rapporto di
fatto precedente l'atto di matrimonio, nel quale la regola è
quella della libertà e non è previsto un obbligo di
fedeltà, che sorge dal matrimonio e rileva in sede di
separazione, per un eventuale addebito.
L'errore sulla fedeltà
della fidanzata che, nel caso, la bugia di questa ha determinato, non
può avere la rilevanza oggettiva che lo rende essenziale ai
sensi dell'ordine pubblico interno e, anche se avesse determinato al
matrimonio il ricorrente, non costituisce vizio del consenso
rilevante nel nostro sistema, non riguardando un fatto assimilabile a
quelli oggettivi e tipici sopra indicati.
Solo se la condotta
prematrimoniale avesse indotto in un errore su connotati stabili e
permanenti del nubendo, poteva riconoscersi il rilievo di esso per
l'annullamento del matrimonio anche in Italia, come è accaduto
ad es. nel matrimonio con errore sulla transessualità o
omosessualità dell'altro nubendo, la cui nullità
canonica è stata esattamente riconosciuta conforme all'ordine
pubblico italiano (Cass. 7 aprile 2000 n. 4387).
L'errore non
può avere rilievo per l'annullamento del matrimonio, in un
caso assolutamente incompatibile con le fattispecie tipiche del
nostro ordinamento, come è stato per quello oggetto della
nullità matrimoniale dichiarata dai giudici ecclesiastici, che
sì è chiesta dal ricorrente di riconoscere in
Italia.
In rapporto alla questione di massima di particolare
importanza rimessa a questa corte a sezioni unite può
enunciarsi il seguente principio di diritto da cui non si è
distaccata la sentenza impugnata dal D., il cui ricorso deve quindi
rigettarsi: "Non ogni vizio del consenso accertato nelle
sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio consente di
riconoscerne la efficacia nell'ordinamento interno, dandosi rilievo
nel diritto canonico come incidenti sull'iter formativo del volere
anche a motivi e al foro interno non significativo in rapporto al
nostro ordine pubblico, per il quale solo cause esterne e oggettive
possono incidere sulla formazione e manifestazione della volontà
dei nubendi, viziandola o facendola mancare. L'errore, se indotto da
dolo, che rileva nell'ordinamento canonico ma non in quello italiano,
se accertato come causa di invalidità in una sentenza
ecclesiastica, potrà dar luogo al riconoscimento di questa in
Italia, solo se sia consistito in una falsa rappresentazione della
realtà, che abbia avuto ad oggetto circostanze oggettive,
incidenti su connotati stabili e permanenti, qualificanti la persona
dell'altro nubendo".
Esattamente la Corte di merito ha
ritenuto in contrasto assoluto con l'ordine pubblico interno la
rilevanza, sulla formazione del volere dei nubendi, data in sede
canonica ad un errore soggettivo e ha negato il riconoscimento della
efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del
matrimonio nel caso, nel quale la rilevanza della ignoranza da uno
dei nubendi sull'infedeltà dell'altro prima del matrimonio, è
certa in attuazione delle istanze etiche che sottostanno al
matrimonio religioso e alla specificità del diritto canonico,
ma non è assolutamente compatibile con l'ordine pubblico
italiano.
Resta assorbita ogni censura sulle carenze
motivazionali della sentenza impugnata come il dedotto mancato esame
dell'ordine pubblico processuale, considerato il contrasto con quello
sostanziale esattamente rilevato dalla Corte d'appello di
Trieste.
6. Il ricorso deve quindi complessivamente
rigettarsi, perché la sentenza impugnata, anche se con
motivazione meno articolata, perviene a un dispositivo conforme a
legge (art. 384, ultimo comma, c.p.c.), avendo esattamente negato il
riconoscimento in Italia delle disposizioni e degli effetti di una
sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio per vizio del
consenso in contrasto assoluto con l'ordine pubblico italiano.
Nulla
deve disporsi per le spese, che restano a carico del D., non
essendosi l'intimata difesa in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.